TRAMA
Venti anni della vita di Saro Scordia, da ragazzo dei quartieri palermitani a uomo d’onore di Cosa Nostra.
RECENSIONI
Non è una questione generazionale, Venezia 64 ce lo conferma; non si tratta solo di autori dalla vena esaurita e che sopravvivono sfoderando la carta d’identità al momento dei Festival, facendo leva sul nome e cognome. Quella del cinema italiano è una faccenda seria che riguarda trasversalmente tutti i cineasti, giovani e vecchi, che concerne un atteggiamento, il modo di concepire il cinema, e di percepirlo. Si impone una riflessione approfondita e seria sull’argomento, su come la produzione italiana si sia appiattita su uno standard e che vivacchi su questo (quel vivacchiare che per molti è l’unico modo di esistere, e questo è il guaio) fidando sull’ottusità televisiva di un pubblico che non distingue il piccolo dal grande schermo. In questo senso Il dolce e l’amaro, con La ragazza del lago, è stato il peggior film italiano visto nella kermesse (il disastro Franchi attiene a un altro campo; quello di Marra è un film non riuscito ma niente affatto disprezzabile che ha pagato per tutti, prendendosi i fischi repressi nelle proiezioni precedenti – ecco perché dovrebbe essere sempre consentito fischiare alla fine delle proiezioni e non guardare a questa pratica come a una forma di aggressione all’autore, perché il fischio, rimanendo dentro, germoglia, sboccia in rabbia e poi si sfoga male -).
Il dolce e l’amaro (voice over a palla, a spiegare tutto; non c’è spazio per interpretazioni personali, tutto va chiarito, la luce accecante su ogni risvolto: motivi, sussulti interiori, decisioni, la stramaledetta psicologia) è uno sceneggiato giocato su un’aneddotica elementare, ripiegata volentieri sul quadretto, neanche troppo molesto (la recitazione è decorosa) se non fosse così piatto visivamente e assolutamente privo di mordente. Il dialogo: scritto (e riscritto, presumiamo), tutto giocato sull’effetto (si vuole essere veristi, si cerca lo “spaccato della realtà” ma poi: Ricordati che nella vita c’è il dolce e l’amaro. Chi mai parla così? Quale orrenda teatralità dissimulata, che brutta roba). D’impianto frammentato (questo è il cinema italiano oggi, non sto a ripetermi), accompagnata da una musica magniloquente e inopportuna che sembra scritta per un altro film, l’opera di Porporati vorrebbe restituire il personaggio nella sua umanità ma non riesce ad andare oltre il ritratto di maniera, secondo un procedimento tipicamente televisivo che rende per tranches esplicative il nodo centrale della questione: l’accettazione di uno status, quello di mafioso, che dà potere e soldi ma che determina il conseguente sacrificio di quella normalità che, a ben guardare, è un altro traguardo esistenziale al quale molti uomini d’onore ambirebbero (la famiglia, l’appartamento ben arredato, i piccoli piaceri del quotidiano). Porporati, già sceneggiatore (Lamerica) batte strade tutte prevedibili, non ci risparmia il siparietto comico (la scena della rapina) che c’entra come i cavoli a merenda (ma lo standard di cui sopra lo prevede) e consegna un saggetto esile e impersonale, ulteriore sintomo di un malessere generalizzato dal quale, temiamo, non c’è alcun interesse a guarire.
Non solo l'America, prima con il Vietnam, ora con l'Iraq, lava i panni sporchi al cinema. La "mafia", infatti, domina incontrastata da decenni nei soggetti cinematografici e televisivi italiani. Certo, sarebbe bello se l'evidenza di certi atroci meccanismi trovasse un riscontro risolutore nei fatti, ma siccome pare sia impossibile bisogna accontentarsi di smascherare le logiche abiette sul grande schermo. Il film di Andrea Porporati (già sceneggiatore di Lamerica e de "La piovra" 7, 8 e 9) assume il punto di vista di un predestinato alla mafia (difficilmente si scappa dall'albero genealogico), dalla giovinezza alla carriera come uomo d'onore. Dopo un prologo efficace (anche se è giorno, in cielo c'è la luna e non il sole se dall'alto decidono così), assistiamo ad alcuni episodi nella vita del protagonista ed entriamo nel suo stato d'animo: occorre guardarsi costantemente alle spalle, bisogna rinunciare ai veri affetti, non esistono amici fidati e si finisce per accettare incarichi sporchi con sempre maggiore impassibilità. In questo senso non è che la sceneggiatura osi granché, anche perché forse non c'è molto da aggiungere a quanto già detto in merito. Ciò che colpisce della visione di Porporati è la scelta di un registro ibrido. Nessuna via crucis del dolore con gesto eroico annesso, nessuna "mano sulla città" ad assicurare prosecuzione al crimine, nessun consolatorio mea culpa delle istituzioni che potrebbero fare e invece non fanno. O, meglio, tutti questi elementi sono sottesi al racconto ma non lo vincolano a un messaggio (anche l'atteso confronto tra giudice e pentito avviene per lo più fuori scena). Sotto l'occhio della macchina da presa, con una messa in scena tradizionale ma non per questo inefficace, c'è lo sguardo dall'interno di una realtà nota, con tutte le possibili sfumature di una vita qualunque. Per cui si ride anche (la rapina in banca a Torino in siculo stretto, con necessità di traduzione da parte di un cliente, è davvero spassosa) senza per questo ridurre la tensione dei momenti drammatici. Chi si aspetta il classico epilogo ad annerire il racconto resterà deluso. Nessun pallottola arriva insieme alla parola "fine", ma una risata, stridente, grottesca e liberatoria. Luigi Lo Cascio torna sul luogo del delitto (la sua popolarità è nata con "I cento passi") con grande intensità, e sceglie, per l'occasione, l'altra parte della barricata.