Drammatico, Sala

IL CORAGGIO DELLA VERITÀ

Titolo OriginaleThe Hate U Give
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata132'
Trattodal romanzo The Hate U Give di Angie Thomas
Scenografia

TRAMA

Un giovane di colore, disarmato, viene ucciso dalla polizia. La sedicenne Starr, sua amica, che ha assistito alla scena, si trova al centro degli scontri che ne derivano.

RECENSIONI

Si apre con una scena che sembra tratta direttamente da Tra me e il mondo di Ta-Nehisi Coates e che esemplifica con chiarezza come anche oggi un cittadino di colore negli Stati Uniti sia esposto ad un rischio concreto. Il corpo dei neri, la loro integrità fisica, in qualunque momento, per qualunque circostanza anche casuale, può trovarsi in pericolo nel confronto con la polizia. Ed è questa prerogativa esclusiva dei cittadini di colore, a cui il beneficio del dubbio non verrà concesso, per cui un errore nella gestione di quel delicatissimo incontro potrebbe essere fatale. Per questo un bravo padre sente il dovere di preparare fin da piccoli i propri figli a quell’inevitabile circostanza.
Questa rimane la sequenza migliore e più coerente di tutto il film, un inizio forte che spiazza ed incanala lo spettatore in una precisa direzione, a dispetto di un titolo che, invece, depista. Non solo per banalità (titolo analogo fu assegnato ad un altro film del 1996), quanto perché più dell’importanza di una scelta di verità e responsabilità da parte della protagonista - tema che potrebbe ritrovarsi, identico, in un film ambientato in un contesto completamente differente - appare rilevante il senso della frase della canzone di Tupac, The hate you give (little infants fucks everybody): crescere nell’odio farà tornare indietro odio.
La cronaca lo ricorda, troppi poliziotti in America prima sparano e poi fanno domande, una leggerezza nel momento del fermo può costare la vita; anche dopo un’ingiusta uccisione gli interrogatori indagano sulle origini della vittima e sulle sue possibili attività illecite - trovando spesso conferma perché in un contesto di miseria e degrado lo spaccio è tappa quasi obbligata.
Le mani aperte e sollevate, che tornano più volte in sequenze diverse, sono le immagini più eloquenti, anche più del volto combattuto della protagonista, più delle riprese delle proteste in strada e dei poliziotti bardati, della ragazza che cammina davanti alla folla, dei disordini veicolati schermi televisivi - un po’ già visti, parecchio retorici. La ripresa pubblica attraverso il telefonino diventa l’unica arma di difesa, anche solo rispetto alla prima, non letale forma di violenza a cui una persona di colore è facilmente esposta: il controllo da parte dei poliziotti - un approccio sempre diverso da quello riservato ai bianchi.
A questa materia profondamente drammatica fa da contraltare la storia della giovanissima protagonista, sedicenne divisa tra il quartiere nero e povero in cui vive e la scuola frequentata da bianchi in cui studia e coltiva i propri rapporti di amicizia ed amorosi. Starr versione 2, un’altra sé più facile ed allettante.

La doverosa costruzione del personaggio centrale sconfina, però, più volte nell’atmosfera da teen movie (complici le scelte musicali), che stride ed indebolisce i temi portanti. Non che manchi il racconto del bivio imposto ai ragazzi afroamericani: scuole black che conducono alla droga ed al carcere oppure scuole frequentate da bianchi che portano all’università; necessità di camuffare lo slang e alcuni atteggiamenti, laddove i bianchi sono liberi di ostentarli. Non si nasconde neppure, per falso buonismo, come rimanga una necessità insopprimibile quella di restare “tra la propria gente”, come la percezione dei fatti sia differente rispetto a chi a quella gente non appartiene, a prescindere dalla sensibilità. Non ha senso affermare che il colore della pelle non conta (come le dice, per rassicurarla, il suo ragazzo bianco), specie se ciò si traduce nel non vedere/sentire quel che l’essere neri comporta. Il film riferisce, come in un documentario illustrativo, il senso di separazione ed estraneità a volte inevitabile, e le differenze culturali - ad esempio, i nomi dei bianchi non significano niente, quelli dei neri hanno sempre un significato profondo che si irradia sulla loro esistenza: Starr ha il potere speciale di illuminare l’oscurità.
Tutto molto corretto, tutto che va come deve andare, ma francamente con troppo bilancino e retorica (il dramma sventato sul finale supera la misura). In una delle stagioni cinematografiche più black di sempre, Il coraggio della verità si inserisce nel filone dei film a tema (notevoli le affinità con Se la strada potesse parlare, anch’esso di origine letteraria). Sono film non malvagi, ma, appunto, limitati dal fatto di essere a tema (solo film sulla “questione nera”) più che figli di invenzioni visive e creatività. Difficile non preferire pellicole come Blackkklansman di Spike Lee, Green book o il precedente Get out, che film a tema non sono (benché molti non lo abbiano compreso), ma prima di tutto storie animate da personaggi, dotate di stile e sguardo personale.
Nota di merito per Amandla Stendberg, grande emergente reduce da Hunger games prima e Noi siamo tutto più di recente.