Drammatico, Sala

I FANTASMI D’ISMAEL

Titolo OriginaleLes Fantômes d'Ismaël
NazioneFrancia
Anno Produzione2017
Durata110'
Sceneggiatura

TRAMA

Un regista sta per iniziare le riprese di un nuovo film e la sua vita viene messa in crisi dal ritorno della moglie, scomparsa da oltre vent’anni.

RECENSIONI

Gli egocentrici veri, non si esibiscono. Piuttosto, trovano una maniera di esibirsi nascondendosi. Lo ha fatto spesso, Arnaud Desplechin, costruendo intorno a protagonisti egocentrici (interpretati dal fedele Mathieu Amalric) molti dei propri film, i quali non di rado nascondono dietro alla finzione palesi spunti autobiografici.
Che la finzione sia una foglia di fico sempre più stretta dietro a cui nascondere una spinta ad autoraccontarsi sempre più ingombrante, I fantasmi d'Ismael ce lo mostra con molta chiarezza. Esso infatti comincia con una strana storia di spionaggio – che nel giro di pochi minuti viene rivelata essere il film che sta realizzando l’eponimo protagonista, un regista abbastanza squinternato che, durante una vacanza al mare insieme alla compagna, viene visitato da una sua ex che credeva morta, e che finisce per sconvolgere la sua vita. Ma attenzione: anche “quel film” dura solo pochi minuti, perché la sostanza drammatica di quel triangolo viene meno nel giro di giusto qualche scena, scomparendo del tutto quando tutti abbandonano la villeggiatura e tornano in città.
Qui il pensiero torna a Trois souvenirs de ma jeunesse, l’appena precedente opera di Desplechin, la quale chiariva diversi aspetti che nel resto della sua filmografia erano rimasti relativamente opachi. Uno di questi è che per l’alter ego solitamente interpretato (come qui) da Amalric, le donne hanno sostanzialmente poca importanza, perché è lui ad averne troppa agli occhi di se stesso. In Trois souvenirs, egli racconta a se stesso che un improbabile amorazzo adolescenziale lo avrebbe segnato per la vita, e che per decenni, anche nel corso di altre relazioni, in realtà ha pensato sempre e solo a lei – ma è evidente che si tratta di un’idea totalmente auto-assolutoria e de-responsabilizzante, un attaccamento puramente narcisista al fantasma di qualcuno che va di pari passo con il totale disinteresse verso quella medesima persona.
Anche in Les fantomes d’Ismael, l’altro sesso si conferma ricoprire un’importanza solo relativa. Una volta polverizzatasi la foglia di fico dello spionistico film-nel-film (che continueremo a vedere a sprazzi fino alla fine, e che è facile leggere come un “anagramma” di molte delle situazioni attraversate dalla vita dello stesso Ismael), si scioglie quasi subito come neve al sole anche il triangolo amoroso tra Ismael e le due donne. Perché Carlotta, la donna che tutti credevano morta e che ritorna inaspettata, per Ismael non è altro che una pedina nel rapporto, per lui ben più fondamentale, tra lui e Ivan, il padre di Carlotta. Perché il rapporto con l’affermato cineasta Ivan è, per Ismael, il rapporto tra sé e se stesso, tra sé e la propria immagine ideale. Con il ritorno di Carlotta, questo rapporto deraglia irreparabilmente.
Grazie a questo deragliamento, il film può davvero diventare se stesso: venuta meno non una ma due volte consecutive la finzione come limite apposto all’autoesibirsi del raccontare (attenzione: non del racconto, né del narratore, ma del raccontare, cioè di qualcosa che prende dentro entrambi), il raccontare può, appunto, autoesibirsi. Il film, cioè, può concentrarsi sull’infinito imbricarsi dei molteplici piani del racconto, che Ismael non domina più: egli, infatti, viene risucchiato in un delirio solipsista a causa di cui il suo film-nel-film gli si gonfia tra le mani fino a inglobare una serie spropositata e finanche esoterica di riferimenti (da Pollock alla storia delle religioni monoteistiche), e di livelli narrativi più o meno autobiografici. Le riprese diventano un incubo, e la realizzazione del film di Ismael diventa un processo virtualmente interminabile – e, coerentemente, nemmeno Les fantomes d’Ismael trova una conclusione, rimanendo invece aperto. Come il film di Ismael, il film di Desplechin accetta a questo punto di sciogliersi in una miriade di direzioni. Il racconto, insomma, anziché chiudersi esibisce il proprio stesso funzionamento. Il processo aperto rimpiazza l’opera compiuta, perché apporre una vera conclusione a un’opera è qualcosa che possono fare solo i registi “veri”, gli Ivan, ovvero precisamente ciò che Ismael, dopo la riemersione di Carlotta, definitivamente non può più essere. Orfano della possibilità di realizzarsi come uomo e come regista, a Ismael rimane solo la direzione contraria: esasperare la proliferazione emorragica delle ramificazioni narrative. Abdicare al controllo, e arrendersi a un processo che può essere solo infinito. Perché quella che saremmo portati a equivocare come furia creatrice, in realtà è la punta dell’iceberg di qualcosa che definisce il tipico personaggio Amalrichian-desplechiniano molto, ma molto più alla radice, ed anche in questo caso si tratta di un processo ugualmente infinito, asintotico e interminabile, perché impossibile: partorire se stesso, e sostituendosi alla creazione esorcizzare il femminile.
Lo sa bene la sua compagna, che si accontenta di fare della propria morigeratezza protestante una devota e diligente forza di contenimento alla vulcanicità di Ismael. Non potendo aiutarlo a partorire se stesso, ripiega dandogli un figlio, anche se nella testa egocentrica di Ismael questo ha probabilmente meno importanza del fatto che tanto nell’Annunciazione del Beato Angelico quanto nei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck (due immagini da cui è ossessionato), la questione della prospettiva centrale si intreccia con quella della fertilità femminile.