TRAMA
Una ragazza legge il racconto di un uomo che ascolta il racconto del proprietario del Grand Budapest Hotel e del formidabile Monsieur Gustave, concierge dell’hotel negli anni ’30, di un omicidio misterioso, di un quadro prezioso, della Guerra e di una famiglia potente e malvagia.
RECENSIONI
È un giorno fortunato per i noiosi detrattori di Wes Anderson. Grand Budapest Hotel è la quintessenza del cinema wesandersoniano: una grandiosa, sofisticata, elaborata architettura fatta di milioni di dettagli meticolosi, calcolatissimi e squisiti. Più del solito, più intensamente del solito. Una summa, come si suol dire, dei tic, delle ossessioni e della ingombrante personalità stilistica del Nostro. Tutte le caratteristiche ricorrenti del cinema di Anderson sono esibite a bella mostra, in un quadro ricco e fitto come non mai, per la gioia dei denigratori più pigri. Basta pescare un fotogramma o un’inquadratura a caso e si troveranno le simmetrie, le tinte unite nette, le geometrie vintage, gli oggetti feticcio, i colori pastello, la stilosità hipster, la fotografia statica, i movimenti di macchina ortogonali e i travestimenti buffi. Non è solo una questione di quantità, però: Grand Budapest Hotel è, nella sostanza, Wes Anderson al cubo. Con una falla, però, che rischia di far scricchiolare la sua difficile arte.
Finora, le accuse all’autore texano faticavano a trovare argomenti solidi che andassero al di là del piccolo gusto personale o di opinabili teorie su una tipologia alquanto striminzita di realismo. Dopotutto, chi ha detto che l’intreccio dev’essere verosimile? o che la composizione dell’inquadratura dev’essere spontanea e casuale? Chi ha deciso che le simmetrie sono senza cuore e le ossessioni cromatiche senz’anima? Per quale sentenza il calcolo meticoloso è escluso dal novero delle passioni? Opinioni, per l’appunto, che si riducono a semplici questioni di gusto di fronte al magico equilibrio che Anderson, nei suoi film migliori, è riuscito a creare tra geometria e inquietudine, superfici e profondità, vita e artificio. Si tratta certamente di un modo difficile e rischioso di fare storie, in cui l’idiosincrasia è sempre a un passo dal soffocare la vitalità dell’opera e in cui la perfezione giocosa dell’ingranaggio gira sul confine del compiacimento mortifero. Ma è un rischio che Anderson corre con piena consapevolezza, sapendo che il senso del suo cinema emerge proprio dallo studio ravvicinato della stasi formale e dalla pulsione di morte che emana da quel reticolo maniacale di oggetti immobili che compongono le sue inquadrature. Quindi, checché possa sembrare da un esame superficiale, quello di Anderson è un cinema spericolato e radicale, che racchiude e sfida un’angoscia profondissima: l’estrema pulizia formale è smangiucchiata dall’interno da un’inquietudine lieve e micidiale. Tutte le case di bambola di Wes Anderson sono avvelenate da una sottile corrosione interna: la famiglia dei Tenenbaum, la comunità animale di Mr. Fox, il piccolo regno middle-class di Moonrise Kingdom, la nave di Steve Zissou, tutta l’esattezza ingegneristica di questi modellini tentenna tra la vita e la morte, tra il cupio dissolvi della perfezione formale e la sferzante libertà della fuga. E in quel piccolo tentennare – nell’attimo incerto in cui la geometria potrebbe chiudersi per sempre o spezzarsi – nasce la forza poetica di quei film
A Monsieur Gustave, invece, il Grand Budapest Hotel piace troppo.
Il lussuoso albergo è l'ennesima riproduzione di Adersonlandia; ma stavolta Wes sembra aver deciso di accomodarcisi dentro e quietarsi. Gustave è il personaggio che forse più di ogni altro porta in scena l'ideologia dell'Autore: elegante, preciso, rigoroso, edonista, ossessionato dai dettagli e animato da un'incredibile etica del lavoro - M. Gustave è la prova provata che il calcolo formale può essere una passione, se eseguito con zelo sovrumano e grande intelligenza. A differenza però degli altri eroi wesandersioniani, Gustave vuole solo tornare al suo hotel, riprendere il suo lavoro, rifugiarsi nella quieta sicurezza di quell'architettura precisa. La fuga d'amore dei giovanissimi Sam e Suzy (Moonrise Kingdom), la caccia al mitico 'squalo giaguaro' (Steve Zissou) e la riscoperta del sopito spirito animale (Fantastic Mr. Fox) spingevano la passione dei protagonisti al di là dei loro mondi di partenza; Gustave, invece, vuole soltanto tornare al suo mondo e fingere che sia rimasto intatto. In realtà, come dice F. Murray Abraham in una delle ultime battute del film, il mondo di Monsieur Gustave era scomparso prima ancora che lui ci finisse dentro.
Siamo chiari: Grand Hotel Budapest è una gran bella commedia ricca di idee e reminiscenze classiche (forse il film di Anderson con maggiore verve comica) e dimostra ancora una volta l'incredibile capacità del suo regista di applicarsi in modo assoluto a una precisa idea di cinema. Ralph Fiennes spiega un notevolissimo talento comico (forse la migliore interpretazione della sua carriera) e un numero esagerato di grandi star fa la sua bizzarra comparsa indossando i travestimenti buffi che l'Autore ha scelto per loro, dimostrando come l'essersi prestati all'estro nerd di Anderson sia ormai un must di qualsiasi curriculum alla moda. L'intreccio scorre in modo quasi impeccabile, i personaggi sono uno spasso e si conquistano il nostro affetto. Manca però l'inquietudine, quel sottilissimo spaesamento che nei migliori film di Anderson riconcilia la geometria con la vita. Il piccolo Moustafa, diventato vecchio, ha preferito perdere tutto per tenersi il malandato Grand Budapest Hotel, per amore e per nostalgia. Agli occhi attenti di noi fan sembra l'elegia di una piccola sconfitta. È una scelta che, speriamo, Anderson non vorrà confermare.
Il genio di Wes Anderson si muove nella sua casa di bambola dissezionata da carrelli laterali, con zoom, scenografie di cartapesta, figurine di cartone, personaggi che abitano quadri che paiono uscire direttamente da un fumetto vintage. L’hotel è la primadonna: ricostruito in un grande magazzino a Gorlitz, vive di dettagli e bizzarre suggestioni e si anima con buffi personaggi, colori eccessivi ed espressivi, musiche multiformi (Vivaldi, balalaike e zither), movimenti cartooneschi. Anderson trae ispirazione dagli scritti e dalle memorie del poeta-drammaturgo austriaco Stefan Zweig (ma ha citato anche Roald Dahl e Ingmar Bergman), omaggia il cinema hollywoodiano, a partire della Golden Age di Ernst Lubitsch e finendo, con inediti particolari cruenti per il suo cinema, dalle parti di Alfred Hitchcock e di M – Il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, ma perde il controllo dell’aderenza emotiva che da sempre, oltre al “gioco” formale, contraddistingue le sue opere segnate da orfani con padri putativi. Ci sono brevi, esigui sprazzi, dove è in primo piano l’affetto che lega il concierge al garzone o quest’ultimo alla pasticciera, ma i personaggi sono infiniti (gli attori famosi che li interpretano anche) in un racconto che parte da un racconto di un racconto e, nella foga di comporre una drammaturgia spedita di piccoli episodi (dove la quantità non è sinonimo di qualità), si perde l’occasione di emulare proprio quei grandi registi del passato per cui la firma estetica, lo stilema era sempre secondario alla capacità di emozionare il pubblico attraverso la rappresentazione dei sentimenti. Il cinema di Wes Anderson resta unico e ammirevole, ma il genio (o porzioni di esso) s’è espresso meglio altrove. Da ricordare, almeno, Willem Dafoe vestito di pelle e con moto che pare uscire da Sin City (ma è un proto-nazi), il Ralph Fiennes gerontofilo, il carcerato di Harvey Keitel.