Drammatico

FUR, UN RITRATTO IMMAGINARIO DI DIANE ARBUS

TRAMA

La vita di Diane Arbus (1923-1971), fotografa americana, “forse uno dei più grandi artisti del ventesimo secolo”. La donna, costretta al luccicante ambiente famigliare del padre pellicciaio, si avvicina a Lionel Sweeney, l’inquilino del piano di sopra, affetto da una terribile ipertricosi.

RECENSIONI

Uno squarcio umano complesso e sofferto, dal tocco peculiare di Steven Shainberg; l'autore di Secretary narra sempre dello stesso personaggio, nella rete della consuetudine ma iscritto nell’albo della devianza, dove appare delicatamente il sublime e infine l'amore. Diane Arbus si presta a perfezione: il film tace la fase matura dell'artista, dalla furiosa produzione al suicidio, e si muove - in un ritratto immaginario - tra le quinte della creatura narcotizzata al suo nido, inventando liberamente (e legittimamente) la genesi della vocazione. La dialettica tra normale e anormale plana sulla prima parte: un dark tale condominiale chiuso in interni, dentro anfratti oscuri, venato da piccoli tremori e particolari insignificanti che smuovono il quotidiano. Se la lente sulla sessualità repressa sfiora il manuale, seducente e spiazzante è l'idea dello squilibrio che rompe l'ordinario nei particolari (le irrisolte scene di letto) in un frullato citazionistico - Freaks, La Bella e la Bestia, Alice in Wonderland (ripresa letterale, esagerata) - che tanto rimesta nello stesso brodo da fornire un vibrante spaccato di disagio. Gira bene il regista, trovando lo scatto migliore nell'occhio fotografico (non a caso) sulla realtà dove manopole, mensole, tubi prendono forme inquiete e minacciose; non manca il colpo di scrittura, che mescola le carte del Bello e del Brutto sino alla sovrapposizione provocatoria (alla festa di Diane, il marito descrive la donna ma potrebbe parlare di Lionel - primo incontro, capelli lunghi, stupore visivo). Il fascino sospeso del preludio, però, è annacquato dalla grammatica dell'esposizione, che illumina esattamente gli angoli della vicenda; il film tenta il melò e zoppica sullo stereotipo zuccherato (l'amore, la morte) ma, se questo resta attendibile, è imperdonabile l'ansia di spiegare come, dove, perché Diane Arbus divenne fotografa (e la sequenza dell'albo, pegno post-mortem di Lionel, dice che siamo in pieno biopic). Fur appaga il quesito del pubblico quindi finisce fuori strada, parzialmente sorretto dalla prova diligente della Kidman ma, soprattutto, dall'esibizione mascherata di Downey Jr. Un dolore sincero che, rispetto al debole prurito di Secretary, inchioda Shainberg alla crescita graduale, non ancora davvero convincente.