TRAMA
In Giordania c’è una zona di libero mercato fra popolazioni confinanti e ostili. Vi convergono Rebecca, americana di padre ebreo (dunque non ebrea, secondo le regole della discendenza matrilineare) in fuga da un rapporto sentimentale naufragato; Hanna, concreta e spiccia commerciante israeliana che sostituisce il marito – ferito in un attentato – in missione d’affari; e Leila, palestinese che vive una difficile situazione personale.
RECENSIONI
Se col dittico Eden -
In questo film si impone la vita quotidiana di popolazioni diverse che confliggono, coabitano, delinquono, cooperano, commerciano in un’area martoriata e vitale. Il bellico rumore di fondo non manca di condizionare l’esistenza dei singoli, e di conferire ai rapporti personali un che di astioso e di sommario, un’aggressiva concitazione. È invece venuta meno la violenta tensione formale (montaggio a strappi, instabilità dei movimenti della camera a mano, livido grigiore dell’illuminazione alternato a sciabolate di luce sui nudi corpi umiliati) dell’opera precedente: se Terra Promessa faceva venire in mente i fratelli Dardenne, qui si pensa a Tsai Ming Liang. Viene ripristinato un tono freddo, una geometria visiva con la quale il regista distanzia i personaggi mentre ne rivela l’emotività più intensa. Ma sono anche recuperate significative diversioni umoristiche: il battibecco fra i militari e Hanna; il riferimento all’Intifada, a mostrare l’abitudine al conflitto ma pure l’apparente inamovibilità di quella terribile spirale; la testarda coazione a ripetere del litigio finale.
La forma è raramente per Gitai semplice orpello o vezzo autoriale, rispondendo a precise esigenze espressive: il rigore di una drammaturgia che pochissimo concede all’espediente amichevole (ne è conferma l’assenza della pur minima traccia di compiacimento per il colore locale o il turistico esotismo dei luoghi) o alla retorica, mentre inclina talora all’oratoria civile; la costruzione paziente di figure umane d’indiretta ma vigorosa comunicativa, tanto più sorprendente se si pensa all’avarizia con cui esse si prestano all’ammicco verso il pubblico; la forza inesorabile dei movimenti di macchina, che erano prevalentemente laterali e “di sfondamento” (dall’esterno all’interno e viceversa) in Alila e qui procedono seguendo le tappe d’un viaggio, sempre in avanti, verso un orizzonte caliginoso e per nulla invitante (ma Rebecca non esiterà ad addentrarvisi); la durata eterna di piani sequenza e inquadrature fisse, che spegne la partecipazione emotiva suggerita dallo snodo diegetico.
Sono elementi costanti (si ricorderanno la scena della battaglia in Kippur, o quella della “costruzione” in Eden sulle note – ripetute fino all’ossessione – della prima sinfonia di Mahler), che consentono il distacco critico necessario antidoto ai climax drammatici. Stavolta, la provocazione si spinge al punto di piazzare uno di tali momenti all’inizio del film: la lunghissima inquadratura pressoché immobile (impercettibili i movimenti di avanzamento e rotazione che accostano il volto della protagonista), con lo schermo virtualmente tagliato a metà dal confine luce/ombra, e il primo piano di Natalie Portman che si staglia nella sua parte oscura. Uno stile tanto esigente, peraltro, sconta il peso di allegorie invadenti che non sempre si sciolgono in vicende umane d’incalzante spessore, sì da bilanciarne lo spirito didascalico; e solo di rado il vettore formale di tale spirito è così potente da diventare valore per sé e inverare la perfezione idealistica del tal contenuto, tal forma, travolgendo l’ostilità verso il dominio della didascalia e l’abuso della metafora.
Importanti tracce narrative coniugano Free Zone ad altre opere di Gitai: i soldati alla frontiera (Tomer Russo e Liron Levo) sono i medesimi compagni d’arme di Kippur; lo sfruttamento degli stranieri che irrompono dall’est europeo o dall’Asia era presente in Alila e in Terra Promessa. Di più: il racconto dello stupro, che accavallato ad altre memorie si sovrimprime alla “fuga” di Rebecca, è identico – anche nelle domande e nel tremendo sorriso della ragazza – a quello riportato in Eden. La Storia non esiste, è solo un miraggio, un gigantesco falso movimento; eterna ripetizione come lo è il fronteggiarsi di Hanna e Leila nell’ultima scena, e come disegna la canzone udita in apertura (versione israeliana della Fiera dell’Est): la sfiducia dell’autore non sembra attenuata, rispetto alle affermazioni perentorie del recente passato. Non sappiamo se essa sia almeno incrinata dalla stessa esistenza di una libera zona di scambio che supera le ideologie, i rancori e le vendette; se venga contraddetta dal procedere di Rebecca lungo la strada rettilinea che si perde all’infinito, o se tale movimento sia soltanto l’omologo del diacronico procedere di Samantha lungo le strade di Tel Aviv (ultima raggelante sequenza di Eden); se il domani è lo spazio di sui si appropria la giovane americana o quello soffocante in cui restano chiuse l’israeliana e la palestinese.
Il film è presentato in lingua originale, con sottotitoli; opzione mai abbastanza lodata, ma qui particolarmente opportuna per liberare la babele linguistica (arabo, ebraico, inglese, spagnolo) dal pastone omogeneizzante del doppiaggio, e far udire il cozzo di universi in faticosa e perfino inconsapevole ricerca di dialogo.
Attrici infallibili, come sempre in Gitai: Portman di sorprendente intensità, tanto da far quasi dimenticare quant’è bella; Laslo perfetta nella sua scontrosa sollecitudine; Abbass fascinosissima nella durezza ostinata del suo personaggio; Maura purtroppo sottoutilizzata.
Come in Terra Promessa - la tratta di prostitute tra arabi e israeliani si trasforma qui in commercio di blindati -, Gitai spia la situazione estrema con occhio vitreo e la ricostruisce alla sua maniera: affaccia il puro road movie nelle pieghe di un puntiglioso realismo, spogliandolo da sovrastrutture per lasciare che sia la camera fissa dalla vettura a fare il film, immerge Free Zone in in un purgatorio regno del malaffare, dove la legalità non costituisce (più) una categoria, osserva in piano fisso le sue donne come insetti sotto vetro insinuando dolori quotidiani e sommesse crudeltà lancinanti, bagna il film in un fiume di lacrime e lo interrompe solo per ascoltare il racconto del proprio disagio. Aderisce totalmente al movimento del reale - mai una sbavatura, ogni sillaba al suo posto - e, insieme, ribadisce chiaramente la propria opinione sul cinema: inutile rispettare in astratto il tempo narrativo, meglio crearne uno proprio, dominanti non l’aspetto cronologico ma la soggettiva intensità delle emozioni vissute sullo schermo. E’ quindi interminabile lo sconvolgente piano sequenza iniziale - che la Portman sostiene alla perfezione - , alla pari del vacuo chiacchiericcio ad oltranza dei protagonisti. Le radici del proprio malessere (sentimentale, etnico, religioso) sono lontane, Gitai ne rispetta l’arcano, senza spiegarle, ma le lascia vivere, emergere, respirare dai particolari rappresentativi. Facendo del suo film un lieve macigno posato sul cuore, dove la morbida eleganza (la dialettica presente/passato di Rebecca) non è seconda alla pregnanza dell’assunto (l’attentato al marito di Hanna). Il cinema impegnato che amiamo: solido ma non vincolante, mai urlato e sempre derivativo, inequivocabile eppure libero da semplificazioni, nutrito di straordinari spaccati figurativi come dimostra la suprema costruzione dell’intera parte finale.
Nonostante le rispettive derive, nei pressi di una frontiera fisica e interiore, le tre donne si ritrovano infine ad intonare la stessa canzone. Poi la radio si interrompe ed annuncia il pericolo di attentati. Silenzio. Riprende la musica, loro continuano a cantare. A chi accusa il regista di eccessiva fossilizzazione politica ma scarsa capacità rappresentativa basti questa sequenza che le coniuga mirabilmente, a chi è tediato dall’ignavia della produzione corrente basti questo film che impartisce lezioni di complessità e rigore. Invece si astenga, al solito, chi vuole capire il Medio Oriente: l’evocazione del dubbio vince su ogni faziosa risposta.