TRAMA
Nell’estate in cui compie 10 anni, Vittoria scopre di avere due madri: Tina, che vive in rapporto simbiotico con la piccola, e Angelica, una donna fragile e istintiva dalla vita scombinata. Rotto il patto segreto che le lega sin dalla sua nascita, le due donne si contendono drammaticamente l’amore della bambina.
RECENSIONI
Nel 2015, il debutto di Laura Bispuri nel lungometraggio, Vergine giurata, viene accolto tiepidamente dalla critica italiana. Pur nelle sue imperfezioni, si tratta però di un’opera che merita attenzione, segnata da più di un motivo d’interesse. Non senza qualche audacia, il film si dedica all’esplorazione di una femminilità di confine, filtrata attraverso le tonalità bluastre di una fotografia gelida. Al pari del suo titolo, si costituisce come film severo, poco ammiccante, dalle angolature non smussate, palestra per lo sguardo di una regista esordiente ma non certo priva di idee. Fatta eccezione per un cambio drastico di luce, che assume ora i toni caldi e avvolgenti della campagna sarda (la direzione della fotografia è dell’ottimo Vladan Radovic), molti di questi tratti tornano in Figlia mia. Alle prese con la sua opera seconda – e secondo passaggio in concorso alla Berlinale – la Bispuri conferma di possedere una bella mano, istintiva e irrequieta, alla costante rincorsa di immagine brusche e pulsanti, rese ancora più pungenti da un montaggio spigoloso, ellittico. È in queste pennellate formali che il film gioca le proprie carte migliori.
Come il film precedente, anche Figlia mia si pone come un’indagine sulla femminilità, meno estrema rispetto al ritratto di mortificazione socio-sensuale della ‘vergine’ e più esemplare nella contrapposizione fra due tipi femminili antitetici: da un lato la donna-angelo del focolare (Valeria Golino), che vede nella costruzione del nido domestico, e nella sua difesa a tutti i costi, l’aspirazione più grande; dall’altro lato l’icona della donna dissoluta (Alba Rohrwacher), femmina sbandata e già perduta, schiava dei propri sensi, incapace di costruire un futuro e dare un senso al proprio destino. Entrambe le figure, a loro modo icastiche, si ricollegano all’ambiente naturale contro cui si scagliano: la Sardegna materna e la Sardegna selvaggia, due volti dello stesso spazio che rimane sul fondo, mai oggetto di una vera esplorazione territoriale – sociale e culturale – ma sfruttato unicamente nel suo elemento di potenza evocativa, arcaica. Ma è solo in apparenza che il film mette in gioco una continua dicotomia fra una figura costruttiva e una distruttiva, una morale e una immorale, una socialmente accettabile e una ripudiabile. Nella storia dello scontro fra due madri che si contendono la stessa bambina – una che l’ha data alla luce per poi abbandonarla, l’altra che l’ha cresciuta e ora la reclama per sé – è proprio il segno della maternità che spariglia le carte e complica le implicazioni morali. Figlia mia sembra suggerire una riflessione che va oltre l’enigma sociologico sull’etichetta materna: è (più) madre chi dà alla luce un figlio o è (più) madre chi lo cresce? Il film si spinge piuttosto verso territori salomonici: maternità come senso ferino del possesso (non è a caso quell’aggettivo possessivo così esposto nel titolo). E in questo far west da richiamo del sangue, il mondo maschile viene lasciato ai margini, stilizzato nella figura inerme del marito di Tina e nelle sagome sfocate degli avventori del bar frequentato da Angelica. L’intento è chiaro fin dalla sequenza introduttiva, in cui la piccola Vittoria osserva il mondo maschile alle prese con una sorta di rodeo campestre ad una festa di paese. Ma lo sguardo della bambina non rimane a lungo su quella ostentazione machista, ma si catapulta subito altrove, rapito da una visione più cruda e essenziale: quella di Angelica abbandonata in un atto sessuale, ruvido, sbrigativamente feroce. La furia del femminile è la calamita dello sguardo della Bispuri.
Figlia mia è quindi un’opera che tenta di rifuggere dalle sociologizzazioni di un certo cinema di stampo realista, proponendo al contrario un percorso nei meandri più astratti delle pulsioni arcaiche. Ma se gli spunti concettuali sono interessanti, manca una sceneggiatura in grado di reggerli. La debolezza della scrittura si fa manifesta in una serie di dialoghi improbabili, innaturali. Ne risente anche la caratterizzazione dei personaggi, soprattutto quello di Angelica/Rohrwacher, eccessivamente sopra le righe, sorta di riproposizione neo-neorealista della Volpina felliniana (con tanto di lingua vorace mostrata fin dalla prima scena) – ma la Volpina viveva, giustamente, solo nella dimensione della memoria e del sogno. Ad uno scarto troppo marcato fra la recitazione delle protagoniste e i comprimari non-professionisti (la sospensione dell’incredulità è fatta pezzi negli scambi fra Tina/Golino e il marito), sia aggiunge un cameo di Udo Kier sulla cui efficacia rimane qualche perplessità. Il complesso di questi difetti strutturali fa di Figlia mia un film a conti fatti forse troppo debole per farsi ricordare. Rimane però lo sguardo non banale di una regista dotata di un impeto prezioso, a cui si vorranno concedere altri banchi di prova per capire quale traiettoria intenda disegnare col suo cinema.