TRAMA
Due persone solitarie si incontrano per caso una notte a Helsinki cercando di trovare il primo amore della loro vita.
RECENSIONI
Da qualche tempo in qua, un buon numero di deficienti (buona parte dei quali leggono Il foglio, o magari ci scrivono sopra) si è messo a irridere chiunque ricordi una verità ormai anche banale ma non per questo meno vera: nulla allegorizza il capitalismo tanto efficacemente quanto i film di zombie. Verità ormai tanto lapalissiana quanto, per dire, “i film western affrontano la dicotomia natura/civilizzazione”.
Chiaramente, ai deficienti in questione sfuggono completamente i presupposti di tale allegoria. Presupposti da cercarsi nel caro vecchio “freudo-marxismo”, e più specificamente nella contrapposizione, che Lacan mutua da Freud, tra desiderio e pulsione. Il desiderio è per definizione impossibile da soddisfare, ed è dunque strutturato su una mancanza; quello che Lacan chiama “oggetto piccolo a”, l’oggetto del desiderio, è l’oggetto che incarna questo vuoto, esorcizzando la costitutiva inattingibilità della soddisfazione e permettendo il circolare all’infinito intorno ad esso. Con la pulsione, la soddisfazione diventa possibile andando a coincidere con l’insoddisfazione; fonte di soddisfazione diventa dunque la coazione a ripetere il mancare stesso della soddisfazione, l’attaccamento ripetitivo a un oggetto della pulsione che incarna non la soddisfazione inattingibile, ma direttamente la sua perdita. Con la pulsione, insomma, il mancare l’oggetto del desiderio non è più un mezzo per esorcizzarne l’inattingibilità (come permetteva l’oggetto del desiderio), ma un fine in se stesso. Freud si salda a Marx quando la “pulsione di morte” (l’attaccamento alla vita organica residuale che non può non rimanere a valle dell’impossibile tensione verso l’inorganico che definisce il desiderio) definisce altresì il capitalismo in quanto tale, ovvero il passaggio, da parte del capitale, dallo stato di mezzo (per ottenere qualcosa) allo stato di fine (l’accumulo di capitale come fine in se stesso). Ecco dunque che l’apocalisse è la “verità” allegorica del capitalismo: la pulsione definisce tanto la vita non-morta (l’organico al di là del principio di piacere, ovvero al di là della tensione verso l’inorganico che indirizza il desiderio) quanto il capitalismo in quanto tale.
I due innamorati proletari precari di Fallen Leaves, più o meno a metà film, vanno a vedere un film di zombie (quello dell’amichetto di Aki Kaurismaki, Jim Jarmusch). E lei commenta: impossibile, con tutti quegli zombie non ce la possono fare. Fallen Leaves è, in effetti, l’antitesi dei film zombie. Esso dirige il nostro sguardo non verso il lato apocalittico di un capitalismo la cui ferocia distruttiva è ormai impossibile da contenere, ma verso la possibilità concreta di contenerlo. Se pulsione e desiderio sono legati da un circuito dialettico, allora bisogna tenere i nervi saldi, e riacquisire intima familiarità con l’interscambio tra desiderio e pulsione. Solo legandoli insieme, si può resistere al dilagare zombesco della pulsione chiamato “capitalismo”.
Facendo dell’uno l’oggetto del desiderio dell’altra, effettivamente i due innamorati proletari precari di Fallen Leaves si presentano come soggetti che resistono al capitalismo/pulsione che dilania le loro vite. Tanto più nella misura in cui lui, per guadagnarsi lei, rinuncia a una delle più comuni forme assunte dalla pulsione: l’alcolismo, la coazione a ripetere l’attaccamento verso ciò che sostituisce la soddisfazione del desiderio. Ma attenzione. Il film finisce con un’ultima inquadratura che allude doppiamente (nel contenuto quanto nella forma) a Charlie Chaplin. Lo si è detto mille volte: Charlot resiste al capitalismo fordista diventando lui stesso macchina. L’uomo resiste alla macchina/capitalismo facendosi egli stesso, mimeticamente, macchina. Analogamente, il desiderio sconfigge la pulsione quando, mimeticamente, si traveste da pulsione.
Tutto questo ha un nome e un cognome: Douglas Sirk. La magnifica ossessione (citato quando, di punto in bianco, il protagonista viene travolto da un tram) in particolare. È da quel film che Fallen Leaves mutua la propria macchina narrativa: in maniera spietatamente ripetitiva, il film si regge sulla successione di vicoli ciechi inverosimili (p. es. il protagonista che smarrisce il bigliettino con su scritto l’indirizzo di lei) seguiti da una risoluzione puramente immaginaria (immaginaria nel senso in cui l’oggetto del desiderio non può che avere la consistenza di un fantasma, cioè di un’immagine che incarna il vuoto del desiderio facendogli schermo), ancora più inverosimile. Nel carattere meccanicamente ripetitivo di questa successione, la spina dorsale narrativa di Fallen Leaves può ben dirsi macchina, e in quanto tale adempiere al mandato chapliniano di superamento della pulsione, dunque di approdo al desiderio e al suo oggetto, mimeticamente attraverso la pulsione, ovvero attraverso una narrazione fatta macchina. Uscendo dall’ospedale verso la sua amata, il protagonista veste letteralmente i panni del fidanzato dell’infermiera, che invece l’ha abbandonata per sempre. La possibilità del desiderio si incolla direttamente alla propria impossibilità. È letteralmente il meccanismo pulsionale alla base del capitalismo, il quale prospera nutrendosi dei propri ostacoli, cooptandoli: Aki Kaurismaki ci invita a prendere possesso di questo meccanismo, e a calibrare noi stessi l’ingranaggio che fa funzionare reciprocamente pulsione e desiderio, affinché non sia lui, l’ingranaggio capitalista, a prendere possesso di noi.
Perché allora questo film così sommamente kaurismakiano non è il più bello dei film dell’autore finlandese? Banalmente, perché manca l’appuntamento con la Storia. Nel sublime Nuvole in viaggio, questo discorso (o uno largamente analogo) si legava alla svolta neoliberale degli anni Novanta. Il grandissimo ibrido Bresson-Fassbinder (ma con David Goodis a sancire le nozze) Luci del crepuscolo, si legava all’occupazione militare del design nel nord-Europa in generale e in Finlandia in particolare. E qui? Qui arrivano le notizie dall’Ucraina alla radio, poco prima che, regolarmente, la protagonista cambi canale e metta la musica. L’antifona la capiamo: a impasse insolvibile, ad antagonismo irresolubile, si oppone come unica soluzione un salto nel puramente immaginario, il salto dal vicolo cieco della pulsione alla luce del desiderio, con tanto di fiduciosa formalizzazione del suo oggetto. È questo salto dal buio dalla concretezza della realtà alla luce dell’astrazione dell’immagine, la definizione non solo dell’elegante stilizzazione visiva kaurismakiana, ma anche dell’ingranaggio di base che fa funzionare tutta la macchina sirkiana del racconto, mimesis della macchina capitalista come (chapliniamente) occasione di resistenza ad essa. L’antifona la capiamo, ma il nesso con la Storia presente (o, che è lo stesso, con la presente fase del capitalismo) è, va detto, più tenue e appiccicato del solito.