Documentario, Sala

DRAQUILA

NazioneItalia
Anno Produzione2010
Durata93'
Interpreti
Sceneggiatura

TRAMA

L’Aquila, 6 aprile 2009, ore 03:32. Scatta l’emergenza.

RECENSIONI

 

Le erbe folli, lente e inesorabili, prendono il sopravvento su quello che rimane della città dell'Aquila, dell'Italia intera. In un Paese che ha fatto della realtà uno show, e viceversa, la narrazione dello spazio pubblico (ferito, rimosso, negato, rivendicato) sboccia da una riflessione sulle possibilità (infinite) e i limiti (angusti) di una rappresentazione perfetta, idilliaca, "amorevole" della perdita, del dolore, della frustrazione. La voce over sciorina nomi, cifre, dati, "fatti" con deliberata saccenza, la stessa che il Potere utilizza per celebrare i propri grotteschi rituali all'ombra di un'emergenza permanente quanto necessaria. Circondati dalle premure dei soccorritori, legati al ricordo del passato ma anche al desiderio di un nuovo (cioè "vecchio") futuro, vittime dei mostri lividi dell'abitudine (il sottofondo televisivo) e del linguaggio ("container"), i terremotati si lasciano avvicinare con cautela dalla macchina da presa, appaiono di volta in volta intimiditi e affascinati, diffidenti e concilianti, sconvolti e placidi. Sabina Guzzanti rinuncia, dopo Viva Zapatero, alle proprie maschere [è significativo il fatto che limiti il fantoccio (di) Berlusconi a una sola apparizione prima dei titoli di testa, mettendogli(/si) in bocca battute che sono in realtà mero riflesso di documentate asinerie pseudogiornalistiche] per accostarsi a quelle altrui, senza colpi bassi, ma anche senza sconti di circostanza e indulgenze facilone (in primis ai politici locali, impotenti pedine e allegre comparse dei meeting "che contano"). A chi lamentasse la "faziosità" dell'opera (ma quale artista, se è tale, non si schiera, non prende posizione, non opera una scelta?) basti osservare l'ironia sconsolata e furibonda riservata al principale partito di opposizione: una tenda ingombra di rifiuti, perennemente deserta, indifferente a tutto, persino al trascorrere dei mesi e delle stagioni. Quanto alle rivelazioni (o, come alcuni amano dire, al "gossip"), non c'è nulla che non si sia già visto nell'ambito di trasmissioni del servizio pubblico. Nessuna novità sostanziale, quindi, ma Draquila svela uno dei volti nascosti di quella realtà di cui la televisione propone un riflesso (o meglio, l'ombra di un riflesso: vedi la sequenza della conferenza stampa, cui i giornalisti "non vip" assistono tramite uno schermo). Il buio è pronto a ingoiarci, non esiste concime migliore dell'assuefazione.

Sabina Guzzanti continua il percorso stilistico di moorizazzione. Alcuni contatti sono evidenti: quando insegue Bertolaso per chiedergli invano un’intervista, ripete esattamente lo stratagemma di Michael Moore in Roger & Me verso il presidente della General Motors, Roger Smith. In generale, è il metodo del cineasta di Flint che viene assunto dalla regista romana: intervistatore spesso in campo, persone interrogate per strada o nelle loro case, campo-controcampo tra intervistato e intervistatore*, pioggia di domande tendenziose e trucchi da sondaggista (Non pensi che Berlusconi ne combini mille al giorno?), sfondi più spogli e solenni per figure particolari (il magistrato Ingroia). C’è un nemico e una tesi da dimostrare, attraverso un bombing di opinioni sovrastate dalla voce dell’autrice: interviene lei a puntualizzare la verità, purtroppo, e finisce per scalfire momenti documentaristicamente perfetti con l’esplicitazione del sottinteso. L’esempio più doloroso è la ripresa della tenda del Pd, che certamente parla da sola, dove si tiene a specificare che “è vuota tutti i giorni dell’anno”. E’ così che in questi istanti la voce attenta all’occhio, distoglie dalla costruzione del testo e sposta il focus sulla verità illustrata dalla regista. Guzzanti raccoglie anche la bava alla bocca di Fahrenheit 9/11: con deviazione dalla tragedia aquilana, per tornare sul discorso personale berlusconiano, “indaga” sulla nascita di Milano 2 e l’ombra della mafia (l’intervista a Ciancimino). Una divagazione – seppure breve – che rivela presto il carattere strumentale, tanto da tornare all’Aquila senza realmente imboccare il percorso alternativo. Draquila non è dunque compatto, si presenta anzi come documentario embedded che risponde unicamente alla mente di Guzzanti (l’artista prende posizione, non la ripete di continuo). In questo oggetto altalenante, composto giustamente di frammenti, brillano due momenti in particolare. Se il filo del discorso si allenta e fa parlare l’immagine, allora la costruzione verbale della regista cede e lascia passare frammenti di realtà, che è quindi nelle sue corde: l’inizio, quando un uomo ripreso da camera a mano - il sindaco, ma lo sapremo dopo - cerca il suo gatto tra le macerie, avvolto in una notte transilvana (unico riferimento visivo al titolo vampirico); la fine, i terremotati paradossalmente contenti perché una casa di bambola è meglio di niente, con chiosa sulla dittatura spiegata dalla gente comune. Ostentatamente pop, Guzzanti trova il passaggio dal particolare all’universale solo in poche occasioni. Moorianamente. Montaggio decisivo, curato con dolente rispetto da Clelio Benevento.

* La Guzzanti fa qui un uso nuovo del suo volto: non più maschere, come suggerisce Selleri, ma una sorta di controcanto espressivo agli intervistati. La gente parla e l’inquadratura mostra la faccia di Sabina la quale, posando sull’esperienza imitativa, regala espressioni cariche di significato. Stavolta MM è lontano.