TRAMA
Roma, anni ’70. La coppia formata dalla spagnola Clara e dal siciliano Felice si trasferisce in un nuovo appartamento in periferia. Il matrimonio tra i due è in crisi e Clara si dedica interamente ai tre figli, soprattutto alla figlia maggiore Adriana. La ragazza, 12 anni appena compiuti, avverte le tensioni nel matrimonio dei genitori, e comincia a mettere in dubbio la sua identità di genere, facendosi chiamare Andrea e presentandosi agli altri con il genere maschile.
RECENSIONI
L'immensità è un film con un'anima, con un cuore, con un Respiro. Può bastare, per salvarlo dalle sue evidenti fragilità e anzi per rendere quelle fragilità parti integranti e necessarie della storia e della sua comprensione? Il regista Emanuele Crialese, a Venezia 79, ha a sorpresa rivelato che la sceneggiatura – scritta da lui medesimo assieme a Francesca Manieri e Vittorio Moroni – è basata sulla sua vera transizione, spiegando anche che questo «è il film che inseguo da sempre: è sempre stato “il mio prossimo film”, ma ogni volta lasciava il posto a un'altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro». Tutto contribuisce, a questo punto, ad alimentare il racconto extrafilmico: tra l'opera precedente di Crialese (Terraferma, Leone d'Argento a Venezia 68) e questa sono passati 11 anni, a simboleggiare una lavorazione travagliata e tormentata. Il risultato è una visione di tragica bellezza, al pari di Penélope Cruz quando appare per la prima volta sullo schermo: la cinepresa la cattura in un primo piano che sfiora i suoi occhi, tracciati con l'eyeliner nero e bagnati di lacrime. Il suo personaggio, Clara, è una “normale” madre di tre figli dell'alta borghesia romana; ma, nella mente della primogenita Adriana, lei è una dea simile alle grandi star italiane, come Sophia Loren o Claudia Cardinale. Poi, tutti assieme, si prepara la tavola, e lo si fa possibilmente cantando. Trasformando anzi quel banale momento in una festosa esibizione canora.
Ad Adriana – che ha appena compiuto 12 anni e rifiuta l'identità e il genere che le sono stati assegnati alla nascita, facendosi chiamare Andrea – non sfugge il perenne attrito tra l'esibita e posticcia armonia e l'abisso: l'abisso di una famiglia che si disgrega e resta unita ormai per pura convenienza, il baratro emotivo di una madre che brama la libertà, in claustrofobico contrasto con la realtà asfittica cui è costretta. Il forte, fortissimo legame che accomuna Clara e Andrea è ancorato a queste due linee maestre: la fuga dalla quotidianità e la spinta verso una nuova indipendenza, verso un'autodeterminazione che sembra impraticabile. Andrea si oppone al padre che si impone a Clara, così come fa coi maniaci che la molestano per strada (“Puoi smettere di essere così bella?”, chiede ad un certo punto Andrea alla mamma). Nei sogni, immagina se stesso e sua madre come figure glamour in uno spettacolo monocromatico di varietà, un universo parallelo in cui essere Raffaella Carrà e Adriano Celentano, struggenti momenti di magia cinematografica che sottolineano sia l'innocenza di Andrea che il suo intuito sempre più acuto. Adottando il suo punto di vista, L'immensità finisce per essere proprio così: un lavoro innocente e persino superficiale, senza trama, che contiene moltitudini inespresse e in cui si avverte un'urgenza che non viene mai davvero approfondita. Un film segreto, sincero, in itinere, ancora in piena elaborazione umana. Un film sbagliato e (per questo) perfetto, che ha il coraggio di mostrare tutte le sue debolezze.