TRAMA
Dato che “non sei nessuno in America se non appari in Tv”, la bella Suzanne non esita a sbarazzarsi del marito per realizzare il suo sogno, ma il suo piano è tutt’altro che perfetto…
RECENSIONI
Tutto come in un noir anni Quaranta: la dark lady bella e ambiziosa, il marito ingombrante, l'amante giovane e spregiudicato, in una cornice opprimente. Ma siamo nella provincia americana di oggi (di sempre?), lei è una Barbie finto - svampita, in realtà fredda e determinata come un ispettore fiscale, lui un sempliciotto italoamericano innamoratissimo e ottuso, l'altro, anzi, gli altri, due ragazzini imbranati, e il sogno comune a tutti (o quasi) i personaggi è ottenere il proverbiale quarto d'ora, o anche meno, di celebrità, entrando in quella scatola dalla quale sembriamo dipendere ogni giorno di più: e non si tratta di semplice esibizionismo. La televisione è la nuova frontiera della morale, la pietra di paragone di ogni azione, il confessore e l'araldo di una società disintegrata: "a che cosa serve fare qualcosa che vale se nessuno ti guarda?", si domanda la protagonista, ed il film è un collage, o meglio, una rassegna stampa, un catalogo di titoli giornalistici ed immagini da prima pagina e/o da prima serata, confessioni targate VHS, inchieste in diretta o in differita, registrazioni clandestine, collegamenti dall'esterno, interviste e tavole rotonde televisive, schegge impazzite di un sistema d'informazione per il quale la verità dei fatti ha un peso relativo, spesso trascurabile. Del resto, se un'azione non viene vista, anzi, guardata dal pubblico, non ha valore, non esiste, e dunque è la televisione a determinare ciò che è vero e ciò che non lo è. Per ribadire il primato dell'immagine nella costruzione della realtà, il regista si diverte ad intrecciare le voci narranti, sovrapponendo e mettendo in contraddizione i punti di vista e giocando sornione con le aspettative dello spettatore: basta un movimento di macchina, un cambiamento di inquadratura, una pausa un po' più lunga del normale, e la commedia si trasforma in tragedia (e viceversa), senza per questo perdere un'oncia del proprio humour straniato, che allo stesso tempo affascina ed intimorisce. Il consueto talento visionario, apparentemente narcotizzato, è in realtà solo controllato con mano più sicura, e per questo risulta maggiormente efficace: una singola immagine è spesso efficace quanto un'intera sequenza dialogica, anzi, spesso si spinge al di là del dialogo, vedi la scena di pattinaggio su ghiaccio dalla quale prendono le mosse i titoli di coda, o la proliferazione di immagini che accompagna le ultime battute dell'intervista alla ragazzina. C'è da dire che Van Sant non poteva trovare protagonista migliore di Nicole Kidman: al suo primo film importante (e senza Tom), l'attrice australiana coglie tutti di sorpresa, riuscendo a dare credibilità ad un personaggio allo stesso tempo bruciante di desiderio (di successo) e meccanico, astuto e irrimediabilmente puerile. Sotto l'apparenza angelica e l'aria di "noli me tangere", al di là dei tailleur pastello e dei sorrisi da pubblicità dentifricia, la signora Cruise è capace di farci cogliere la personalità devastata e contraddittoria di Suzanne Stone (allusione birichina a Sharon?) con una profondità ed una precisione addirittura inquietanti, attraverso dettagli che rimangono scolpiti nella memoria (ad esempio lo sguardo smarrito che accompagna la rievocazione del delitto). Perfetti anche i comprimari, tra cui si distinguono, oltre al solito, impagabile Dillon, l'acida e disillusa Illeana Douglas e un Joaquin Phoenix irresistibilmente catatonico, anni luce dal "Gladiatore".
Un’opera su commissione (ma, a quanto pare, un soggetto simile era alla base di un suo mediometraggio anni settanta mai andato in porto) che Van Sant nobilita con una regia originale e inventiva, capace di indovinati tocchi di classe, ma anche astutamente al servizio di una bravissima Nicole Kidman, sorpresa maggiore della pellicola, in un ruolo che è stato il salto di qualità della sua carriera. È nel Dna dell’autore ritrarre con schiettezza elementi (soprattutto di matrice sessuale) provocatori e corrompere la struttura narrativa con una costruzione anomala, grottesca: interpreti che interloquiscono direttamente con la macchina da presa (per replicare, dissacrandoli, gli stilemi televisivi), incastro di flashback, caratteri pennellati con ironia mai fine a se stessa. La sceneggiatura di Buck Henry non offre molti spunti per disquisire sul dominio incontrastato del piccolo schermo nella Coscienza Collettiva moderna (una presenza ancora più angosciante e paradossale negli Stati Uniti del 1995) e preferisce affidarsi a un contenuto abbastanza povero e scontato, da rivisitazione del noir con femme fatale glaciali in carriera, opportunismo disumano, false e ingannevoli idolatrie da reality-show. È il tocco sarcastico e critico del regista ad andare a segno, oltre al suo taglio filmico e a questa protagonista tanto sensuale e determinata quanto stupida, con “qualità” che, paradossalmente, sono le più adatte a sfondare nel medium della vacuità e delle apparenze. Buon soundtrack.