TRAMA
1940, Seconda Guerra Mondiale. Salvatore Todaro è un comandante della Marina Militare con un destino inscritto nel nome, a capo del sommergibile Cappellini nonostante un incidente gli abbia provocato forti dolori alla schiena che lo autorizzerebbero ad accettare la pensione di invalidità, come la moglie Rina, stanca di saperlo lontano e in pericolo, vorrebbe che facesse. Ma il comandante Todaro non sa stare lontano dai flutti. Durante la sua ennesima missione avvista una nave belga…
RECENSIONI
Costretto in un busto, una «corazza di ferro e coldana» a seguito di un incidente con l'idrovoltante, Salvatore Todaro, comandante del sommergibile Cappellini, è pronto a salpare dal porto di La Spezia per una missione che lo condurrà nelle viscere dell'Atlantico. A terra la moglie Rina, con un figlio fragile e incinta di una bambina che lui non conoscerà mai; con sé, la parola oracolare di un sarto-indovino, una genealogia tratta dall'Iliade che lo ricollega a Sisifo, che osò sfidare la morte e gli dei, anche riletto come personificazione di un mare ondivago, un mare che chiama alla battaglia.
L'ultima opera di Edoardo De Angelis, snodandosi tra action e ritratto storico, umano e politico - con a disposizione un budget di 15 milioni di Euro, o poco meno - abbandona le terra e le trincee già percorse dal cinema che negli ultimi anni ha raccontano la guerra per muoversi sulla congiunzione – e sul contrasto - tra le allucinatorie vastità dell'oceano e i claustrofobici anfratti del mostro d'acciaio («La nostra trincea non si vede e il nemico è lontano, protetto da strati di acqua e di acciaio, da migliaia di millimetri di artiglieria»): agli spazi vitali ridotti ai minimi termini, che gli uomini dovranno imparare a vivere e condividere, si contrappongono acque aperte e ancora ignote, spesso in beffarda attesa sotto un cielo livido. Un fosco orizzonte da scrutare dal ponte, prigionieri del suo potere nullificante, ingannando attese, timori e tremori con una sigaretta fumata con il fuoco all'interno – «fogu a intru» – per non cadere sotto lo sguardo del nemico.
L'orgoglio guerresco trasuda: la missione che li porterà ad affrontare lo Stretto di Gibilterra, e oltre, è ammantata di incenso; il sommergibile che Todaro (Pierfrancesco Favino) è stato chiamato a capitanare è da lui accuratamente decantato - con piglio da sacerdote futurista – nel furor bellico delle sue 70 tonnellate di acciaio ed efferatezza.
E, dentro e oltre la macchina bellica, la raffigurazione del portato storico dei suoi uomini e dell'Italia poliedrica che incarnano: «il crogiolo dove tutti i dialetti, piccoli manufatti e grandi opere dell'ingegno, ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie si sono fusi».
Un film testosteronico (la Storia è Storia, e non è compito né volontà di De Angelis quella di tentare di sovvertirla), le donne destinate a formare un coro di prefiche che intonano oracoli di morte ancor prima della battaglia («Questo vento, io lo so dove li soffia tutti questi ragazzi: li soffia a morire»), generazione di Penelopi - in una mescolanza di Eros e Thanatos sin troppo lirica, sin troppo abusata – che restano a cantare le gesta dei loro uomini; uomini che si spingono oltre l'eroico, nella morte privati persino dell'onore di una lapide, ombre incagliate in eterno tra i coralli, sotto centinaia di metri di mare.
Di quei sommergibilisti, Todaro è una guida atipica, l'incrocio tra uomo di mare e vate di eco dannunziana. Capace di penetrare il futuro, considerato «Il più matto ed esaltato della Regia Marina Italiana... un fachiro, forse addirittura un indovino», il suo orgoglio virile costretto in un busto, vittima di dolori perenni, che pratica lo yoga e consulta improbabili profeti prima di partire per nuove missioni.
Nel film scelto per l'apertura dell'80° Mostra del Cinema di Venezia – a seguito della defezione di Challengers di Luca Gadagnino –, scritto da De Angelis e Sandro Veronesi e seguito dall'omonimo romanzo, sempre frutto di un lavoro a quattro mani, la figura di Salvatore Todaro non viene tuttavia risucchiata in un'altrimenti parodistica trasformazione in un guru ante litteram, né in un simbolo antisistema, ma resta fedele rappresentazione di uno spirito ben calato nel suo tempo: colpevole di aver tratto in salvo i naufraghi del piroscafo belga Kabalo, è pronto ad affrontare, senza alcuna volontà di opporsi, qualsiasi decisione della Regia Marina. E scopriremo solo alla fine, con la lettura dell'oracolo da parte di un soldato belga poliglotta, che il greco antico del vaticinio consegnatogli dal sarto prima di imbarcarsi sul Cappellini, Todaro non avrebbe saputo come decifrarlo, non conoscendo né la lingua né l'Iliade.
Per quanto De Angelis cerchi di aprirsi anche all'antischematismo – dall'eclettico ritratto di Todaro all'utilizzo dei dialetti (dal veneto di Favino al sardo di Mulargia, fino al campano del corallaro Stumpo) per rimpiazzare l'illusione di un'Italia unita contro il nemico con una caotica, ma ben più realistica, commistione di tante Italie - dando vita ad un'opera filologicamente corretta, frutto di lunghi studi e ricerche su diari di bordo, lettere e scritti privati, Comandante rimane di fatto ancorato ad un didascalismo intriso di luoghi comuni sui tempi e sul paese che racconta.
Un'opera programmatica, vittima del desiderio di farsi portavoce dell'universale, di tante (troppe?) istanze contemporanee - dalle stragi dei migranti nel Mediterraneo al conflitto in Ucraina, esplicitato sin dalla citazione in esergo («”In mare, siamo tutti alla stessa distanza da Dio, a distanza di un braccio. Quello che ti salva” Un naufrago russo salvato da un comandante ucraino - Pacifico del Sud, marzo 2023») - e che, sin troppo spesso accompagnata dalla voce fuori campo di Salvatore Todaro che si staglia retorica («Noi affondiamo il ferro nemico senza pietà e senza paura, ma l'uomo... l'uomo lo salviamo»), finisce per trasformare in enfatica ridondanza anche alcuni fortunati momenti che sembravano illuminati da una suggestiva commistione di sacro e profano, caratterizzati da un lirismo letteralmente viscerale: lo sterminato elenco (fine pena: mai) dei piatti tipici della tradizione italiana, declamato dal cuoco di bordo a sopperire la mancanza di cibo come conforto e rifugio, che torna a riecheggiare stentoreo sui titoli di coda.
Dal fegato alla veneziana al baccalà mantecato, dagli struffoli ai maccheroni «in tutti i modi»: il viaggio degli uomini del Cappellini si conclude a gastronomica Odissea nelle delizie di una didascalica italietta, che osò sfidare gli dei per salvare l'umanità.