TRAMA
La bella Gloria lascia il suo amante, il celebre critico d’arte Lulli, per Adrian, giovane e promettente scultore. Qualche tempo dopo, Lulli inizia a interessarsi della carriera di Adrian.
RECENSIONI
Il nono film di Sergio Rubini è un bel problema. Scarno fino alla banalità (Lui Lei l'Altro, Arte vs. Critica), meccanico fino alla caricatura, scritto non di rado coi piedi (trama inutilmente e maldestramente ingarbugliata, dialoghi spesso inascoltabili), recitato a corrente alternata (l'allure luciferina di Rubini-Lulli contrapposta alle smorfie da fotoromanzo degli "amorosi" Scamarcio e Puccini), appesantito da musiche sentenziose. Ma anche illuminato da un dono raro nel cinema italiano di oggi: una regia che non descrive né spiega, ma si limita (si limita?) a mostrare. Il film è davanti ai nostri occhi fin dal prologo, in cui Rubini, nelle vesti di architetto-presentatore, illustra le fasi del processo creativo e, cosa ben più importante, individua l'essenza del film nella giustapposizione di immagini che possono apparire contraddittorie o addirittura incompatibili, finché non se ne sia colto il motivo conduttore, o per meglio dire il giusto punto di osservazione. Colpo d'occhio parte come romanzo di formazione e si trasforma, da un ellittico luogo comune (o stazione?) all'altro, nella storia di una vendetta: quello che era il protagonista si rivela effimero segnaposto, il supposto artista si trasforma in opera d'arte. Il film si articola su poche immagini ricorrenti: grandi spazi vuoti (musei, laboratori, anticamere) che devono essere riempiti e repentinamente svuotati, luci di volta in volta radenti e soffuse, colori glaciali e torridi, una collana multicolore che riassume la deriva di una relazione, la ferita purulenta di un dito di vino, un'opera d'arte che da metafora si fa corpus delicti e un'altra che "è" il suo autore e insieme lo strumento di una vendetta postuma. Stretto nelle maglie di un racconto di genere, Rubini può concedersi il lusso del superfluo, sequenze che "non vanno da nessuna parte" (e dove dovrebbero andare? noi siamo sempre stati qui) e dettagli che, nella loro essenzialità, "dicono" tutto quello che serve (lo specchio opaco). Che poi il meccanismo non giri sino in fondo, arenandosi a un passo dalla fine, è comprensibile, anzi necessario: tutto deve rientrare nei ranghi del melodramma, l'automa riacquista la favella, il cattivo è definitivamente smascherato, la macchia (dis)umana finalmente arginata. Resta però qualcosa: un profilo bianco scalfito da un segno rosso. Anche l'occhio vuole la sua parte.
