Drammatico, Sportivo

CINDERELLA MAN

TRAMA

New York. Anni Trenta. La storia vera del pugile Jim Braddock.

RECENSIONI

Dal regista più americano del mondo (Ron Howard) un filmone vecchio stampo che applica con estrema professionalità l'arte della retorica. Il regista fonde con mano solida i più gettonati cliché narrativi d'oltreoceano: l'uomo che si è fatto da solo, la seconda opportunità, solo chi cade può risorgere, non c'è vittoria senza sofferenza. Ad estremizzare caratteri e situazioni ci pensa l'ambientazione nella New York degli anni Trenta, quando, a causa della crisi del '29, quasi la metà della popolazione americana viveva sotto la soglia di povertà. La "Grande Depressione" è una cornice perfetta per santificare l'eroe del film, il pugile Jim Braddock, realmente esistito e romanzato a dovere per celebrare il mito. Eccolo quindi bravo a combattere ma sfortunato (un infortunio gli compromette in modo irreparabile la mano destra), buon padre di famiglia (si toglie il cibo di bocca per darlo ai figli), virtuoso (non c'è nulla da mangiare, il figlio ruba un salame e lui lo riporta al negoziante), esempio per tutta la nazione (ai primi successi economici restituisce il sussidio statale). Del resto la mogliettina non è da meno, sgura pentole e pavimenti tutto il giorno senza lamentarsi mai, cresce i figli con amore, è più che devota al marito e fa pure lavori extra di cucito. Naturalmente i due vivono in armonia in una sudicia topaia con i tre figlioletti che sono pargoli deliziosi, capiscono i limiti e non li superano. Ecco, basterebbe questa presentazione dei personaggi per rendere il film detestabile, con la mania tutta americana di mostrare come vero un ideale totalmente privo delle pulsioni più umane. Eppure, l'abilità di Ron Howard è nel fare digerire il polpettone creando un affresco d'epoca tanto pervaso da buoni sentimenti, e sostanzialmente fasullo, quanto sontuoso e spettacolare, a cominciare dall'accurata ricostruzione storica. Se si accetta con coscienza di vedere un solo lato della medaglia, quindi se si decide di stare al gioco, il film è di quelli che coinvolgono, in cui si arriva alla fine facendo il tifo per il protagonista. Con tutta la retorica, perfettamente applicata, dei combattimenti di boxe al cinema (il pubblico in delirio, la mogliettina con i figli a casa ad ascoltare l'incontro alla radio, gli sganassoni distribuiti con equità, il cattivo così cattivo che quasi urla "ti spiezzo in due"), e della storia vera, per di più lacrimevole. Chi, però, incuriosito dal tema vorrebbe dare un'occhiata anche all'altro lato della medaglia, quello che non ha paura di appannare il mito mettendo in scena le umanissime sfumature non per forza edificanti, deve rivolgersi altrove. Tra le sequenze imperdonabili, quella in cui, durante uno degli incontri, lui cade, si rialza, ricade, sta per non rialzarsi più, quando gli appare in aiuto, e gli dà la forza per capovolgere la situazione, un fotogramma sgranato della moglie con i figli nell'amorevole topaia.
Nel cast si distingue Russell Crowe, con il suo volto dolente e il fisico asciutto vera anima del film, e Paul Giamatti, sempre più caratterista di lusso. Renée Zellweger, data la mestizia del ruolo, limita le moine e si dedica alla sua seconda specialità: piangere a profusione.