Noir, Recensione

CEMENTO ARMATO

TRAMA

L’atto di distruzione di uno specchietto dell’auto compiuto da un ragazzo di borgata in motorino sul grande raccordo anulare scatena le ire del Primario, un boss della Roma malavitosa, che meditando vendetta fa rintracciare il proprietario del mezzo.

RECENSIONI

Premesso che abbandonare la via sicura delle interminabili “notti prima degli esami” e del cinema neriparentiano per avventurarsi sulle strade (a dir poco perdute) del noir, in Italia, è già di per sé operazione di estremo coraggio, ci sembra che Martani (insieme all’entourage composto da Fausto Brizzi e Luca Poldelmengo) abbia affrontato questo imprevedibile detour a cuor molto leggero. Se col genere non si scherza, come affermava Lucio Fulci qualche lustro fa, quando si stava toccando con mano l’ineluttabile destino di disfacimento di una parabola cinematografica, quella dei generi appunto, oramai spacciata, Martani, pur volenteroso e incolpevolmente caparbio, sembra trattare la materia con eccessiva e navigata nonchalance, a dimostrazione del fatto che non basta crogiolarsi sulla mimesi di modelli referenziali alti del nero italiano, Germi, Lizzani, Di Leo (e forse anche Lenzi) con imbarazzanti rigurgiti di pasolinismo, per fare un noir. Bisogna saper ricreare forma e significazione, e soprattutto bisogna lavorare “alla figura”, proprio come un pugile sul ring, occorre che le figure del noir, personaggi e ambienti, (e le storie, situazioni diegetiche che li mettono in relazione), scaturiscano da un confronto credibile tra natura umana e territorio (in fondo l’origine paradigmatica del noir – di tutto il noir a venire, dalla letteratura al cinema – è rintracciabile nel romanzo realista francese di metà ‘800) in modo da garantire quel movimento conflittuale proprio di un’antropologia minima verso lo spazio abitato, il confliggere di tale permanenza esistenziale in un ambito territoriale. L’ubi non consistam del tentativo di Martani è localizzabile nel suo non essere in grado di generare un nuovo immaginario noir, proprio perché le figure a sua disposizione tradiscono, oltre alla scarsa attendibilità (e chi cita a sproposito Di Leo dovrebbe andarsi a rivedere la “trilogia del milieu” e rintracciare la matrice scerbanenchiana dell’analisi d’ambiente, prima di tutto), l’impostazione posticcia del progetto nella sua totalità, dalla pretestuosità dell’innesco narrativo degli specchietti retrovisori alla gestione dei passaggi e degli snodi del racconto sul padronato malavitoso dell’Urbe, ai quali non è sufficiente imprimere buon ritmo, caratteri e situazioni studiate la notte prima (del film), risultando figurine di cartapesta che si muovono in un diorama urbano senza urbanità. Il titolo è straordinariamente evocativo, ma dov’è questo cemento? Dov’è il rapporto tra uomo e spazio vissuto messo in opera, o in discussione dal noir? Su quale piano di senso devono misurarsi le traiettorie degli sguardi dei personaggi nella lotta per la definizione di se stessi e dell’appartenenza a o del territorio? Su quale distanza deve essere pensato il percorso di odio antropologico che divide atavicamente la zona periferica dal nucleo centrale, la Garbatella dai quartieri della Roma bene, se queste lontananze non sussistono neppure come spazi mentali nella dimensione dell’attanza? Allora risulta più convincente Fame chimica di Bocola e Vari, tanto per fare nomi, che questa problematizzazione dello spazio urbano almeno riesce a metterla in gioco, nonostante, anche in questo caso, l’interazione tra personaggi e psicologie suoni falsa. Il problema di Cemento armato non è solo di quelle esili silhouette di cartone che ne popolano la diegesi, come non è solo dei vacui virtuosismi stilistici (le plongée sui corpi innamorati incapaci di restituire il dolore e l’ineluttabilità di un meccanicismo feroce) o della retorica di marca televisiva, quasi soap-operistica (l’orchidea che appassisce allo sfiorire della vita) più che di derivazione hongkonghese come qualcuno ha rilevato, ma di pura e semplice (col)locazione, di un film che per essere ha bisogno necessariamente di situarsi, e questa situazione è di fallace indecidibilità tra un immaginario che non c’è più (il trapianto di topoi pseudo-dileiani su un contesto cinematografico profondamente mutato) e un immaginario che non è ancora, quello di una riformulazione consapevole dei codici del noir.