Commedia

CELEBRITY

TRAMA

Lee, giornalista quarantenne, lascia la moglie e tenta di farsi strada nel jet-set…

RECENSIONI

Probabilmente (quasi sicuramente, in realtà) il film più disprezzato e misinterpretato di quelli girati da Allen nei ’90 (quindi, per la proprietà transitiva, il più sottovalutato di sempre all’interno della filmografia del regista), Celebrity non è un pamphlet moralistico sul declino della società d’oggi, né un vuoto esercizio di (auto)analisi con (auto)assoluzione incorporata, ma una tragedia brillante e paradossale, mascherata da rossiniano peccato di vecchiaia. Superfluo (ma estremamente piacevole) soffermarsi sulla magnetica perfezione formale, tanto nella costruzione delle inquadrature quanto nella direzione di un cast divino, in ogni senso (gli sguardi obliquamente annoiati che Melanie Griffith sfoggia nel dialogo all’interno dell’automobile del protagonista sono solo un esempio); sotto la superficie d’impeccabile cristallo, le ossessioni del regista (il sesso, la morte, il ruolo dell’arte nella partita senza fine tra i due contendenti di cui sopra) deflagrano con acida inarrestabilità. Il cielo non ospita più lo spettro materno e rompicoglioni di Oedipus Wrecks, ma un grido di allarme che è mero artificio: il genere umano precipita nel vuoto ma non se ne preoccupa, anzi, tenta di raggiungere il fondo il più presto possibile, forse per sottrarsi al dubbio che incrina le certezze più ottusamente difese (i timori prematrimoniali di Robin). A complicare ulteriormente la situazione, i fili delle esistenze umane sono affidati a una Parca ignara di aspirazioni e/o meriti: la Fortuna concede e toglie con mano rapida, inspiegabile e imprevedibile, e non c’è che rassegnarsi, godere se si può e tacere in caso contrario. Neppure l’arte è un’efficace via di fuga dalla travolgente fragilità del reale (i fogli lasciati al gioco del vento, l’inconsistenza del talento, la miopia dei critici), mentre l’amore è una sciarada al fiele, un gioco di noia e crudeltà dal quale è impossibile ricavare una consolazione, figuriamoci una morale. Gioco di specchi (de)formanti, denso d’irresistibili allusioni al corpus alleniano (si riforma la coppia Davis – Mantegna di Alice, Stardust Memories e Crimini e Misfatti sono evocati dalla lucida perfidia delle scene di massa, la fotografia di Nykvist rimanda alla stilizzazione di Ombre e Nebbia e Un'Altra Donna, mentre Manhattan ha perso qualsiasi sfumatura mitica o anche solo onirica), nutrito da una vena corrosiva e disperata che rifiuta non soltanto il finale lieto ma il finale tout court, Celebrity immerge personaggi e spettatori in una rete di piani sequenza di straordinaria eleganza e placidità (neppure) apparente: le singole tessere, spesso esilaranti (perla assoluta l’apparizione del divo psicotico di un perfetto Di Caprio), formano un mosaico tutt’altro che rassicurante o consolatorio, il ritratto disincantato (e non del tutto distaccato) di una città (dello spirito) che mai non dorme perché ha ucciso il sonno.