Avventura, Azione, Fantascienza, Sala

BUMBLEBEE

Titolo OriginaleBumblebee
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata114'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia
Costumi

TRAMA

1987. La neodiciottenne Charlie scopre che il suo nuovo maggiolino è in realtà un alieno ferito e braccato.

RECENSIONI

Prequel o reboot? Teen movie nostalgico o mecha pirotecnico? Macchinina o soldatino? Perché scegliere, quando si può accontentare tutti? Come i suoi robottoni dai nomi che non lasciano nulla all’immaginazione (i Decepticon non riescono ad ingannare nemmeno l’ustionato ma solo a tratti caustico agente Burns di John Cena) anche Bumblebee è una creatura mutevole, in grado di transformare l’identità del franchise per adattarla a un pubblico il più ampio possibile, assumendo vari assetti nel corso della sua durata finalmente assennata e cercando di non privilegiarne nessuno in particolare. I suoi intenti furb(y)etti ma sempre giocosi, celati sotto l’innocua carrozzeria di un maggiolino VW, sono infatti quelli di rimettere saldamente in pista una saga sempre in pole position al botteghino ma indubbiamente ingolfata da (vuoti? vani?) eccessi effettistici e deflagratori, marchio di fabbrica che ha reso famigerato il suo deus ex mechaina e decisamente faticoso l’approccio del profano ai suoi ultimi capitoli (confessiamo di non essere riusciti a raggiungere il quarto), che iniziavano ad accusare le prime flessioni d’incasso. L’animatore Travis Knight – che aveva già lavorato con (veri) scheletri meccanici alti cinque metri nel suo esordio registico Kubo e la spada magica – pilota dunque con buona maestria il film al di fuori della baia rassicurante dei precursori, esplorando mondi relativamente nuovi per gli alieni Hasbro (senza con ciò dimenticare origine e missione del film, basta un ologramma impiantato nel petto) e tuttavia ben noti a qualsiasi terrestre che frequenti il cinema.
Quasi tutto, in Bumblebee, contribuisce a restituire l’immagine di un prodotto che sa essere lucido interprete dello Zeitgeist blockbuster, sfoggiando un design ben studiato e ricco di idee intramontabili ma di puntuale e immancabile impatto, come una Chevrolet Camaro. Si consideri ad esempio l’ambientazione anni Ottanta: è la moda del momento (Stranger Things, su tutto) e garantisce l’interesse di un vasto spettro generazionale, soprattutto se si strizza l’occhio alla Amblin (Spielberg è produttore esecutivo), inoltre consente di distaccarsi sufficientemente dal primo capitolo così da potersi concedere tutte le libertà che si desiderano, realizzando un film a tutti gli effetti indipendente senza intaccare la continuity e irritare i fan della saga originale, cui non si lesinano sacrosanti riferimenti ad avvenimenti là rappresentati. Ma gli anni Ottanta sono anche – transmedialmente – proprio la decade che ha visto nascere l’epopea della linea Transformers Hasbro, all’inizio strettamente ludica ma ben presto vero franchise multimediale. È dunque il teatro perfetto per la origin-story di uno dei suoi personaggi più iconici e un contesto sicuramente più azzeccato rispetto al nuovo millennio digitale, sia per il ruolo di dispositivo magico associato alle auto – strumento principe di individuazione e coming-of-age, autentica navicella in grado di mettere in comunicazione con persone, mondi e sogni altrimenti irraggiungibili: è per Charlie l’unico mezzo per ritrovare il padre defunto – sia per l’immaginario bulli-pupe-motori-e-spiagge-californiane, che Bay sposava in chiave autoironica per affermare la superficialità dell’intreccio (il suo fiero autoparodiarsi certo non lo assolverà, ma aiuta sicuramente a digerire certe grossolanità, si veda lo sberleffo ad Armageddon inserito in Transformers, forse il momento più memorabile del film) e che qui contribuisce invece alla delineazione della protagonista outsider à la Breakfast Club, alla ricerca di sé stessa in un mondo di patinati richiami alla cultura pop e di onnipresente (Miami) vibe da eighties serialtelevisivi.

Lo scontro tra il Transformers padre e il nuovo arrivato vede il film del 2007 spuntarla – con i suoi liceali troppo cresciuti – probabilmente solo in quanto a casting rétro, ma è proprio nella scrittura che Bumblebee trionfa a mani basse, rifacendo al primo i connotati e affermandosi in questo senso come suo effettivo remake, virato al femminile come da ulteriore prassi odierna (stessa famiglia comicamente disfunzionale con cane inetto, stesso ritrovamento dell’alieno giallo tra auto usate), e indovinando da parte sua un insperato equilibrio tra commedia, mélo e azione. Se le vicende umane troppo umane del protagonista erano per Michael Bay solo un pretesto per dare la scintilla d’ignizione alle prolisse botte tra giganti ILM (“Gli umani sono una specie giovane, hanno ancora tanto da imparare”), si restituisce qui loro la giusta preminenza, riservando il surriscaldamento del motore drammatico e il relativo arsenale di fuochi artificiali ai luoghi più precipui dell’incipit e del climax finale e ribaltando l’approccio di Bay nell’espediente più fondamentale della fantascienza tutta: l’alieno come specchio nel/col quale riscoprire la propria identità/umanità (“Lui è più umano di quanto tu sarai mai”).
Senza osare trasformarsi in qualcosa di più impegnat(iv)o del giocattolo ben oliato che gli si richiede di essere e mantenendosi sempre perfettamente leggibile con didascalie e telefonate tutto sommato ben amministrate, il film però non si limita ai sottotesti di serie e azzarda qualche pur classico optional. Particolarmente curato (ci mancherebbe) è il tratteggio del rapporto tra la Charlie della grintosa Hailee Steinfeld e la macchina eponima, debitore di pietre miliari come King Kong, E.T. e Il gigante di ferro ma non banale nell’intersezione con quello tra lei e il padre. L’incapacità di Charlie di tuffarsi a capofitto nell’età adulta ruota tutta attorno al rapporto irrisolto con quest’ultimo, improvvisamente scomparso a causa di un infarto: un trauma da cui Charlie non riesce a ripartire, come – invero senza tante sottigliezze – non riesce a rimettere in moto la Corvette di lui che ne è il chiaro simulacro. Bumblebee si sovrappone quindi al padre e la sua riparazione (che prevede pure una defibrillazione improvvisata) coincide ovviamente con la riconciliazione di Charlie con il ricordo di lui (e l’accensione post titoli della Corvette). Questo la emancipa da un malsopportato eppure insuperabile status di figlia (eterna) e le permette di accedere alla maturità, invertendo la relazione figlia-padre in madre-figlio: è Charlie a battezzare “Bumblebee” l’unico Transformer privo di nome pittoresco e a insegnargli a parlare e a muoversi nel mondo degli uomini, mentre il tuffo cruciale che realizza in acqua il definitivo collegamento (ombelicale) tra i due precede una separazione lacrimogena che lascia pochi dubbi su chi ricopra il ruolo del genitore (e del resto – confessiamo la nostra ignoranza in fatto di motori – non si può forse considerare la Chevrolet Corvette con cui Charlie sfreccia alla fine, una sorta di madre putativa della pony car Camaro in cui si trasforma Bumblebee appena prima?)
Se la love story (multietnica, che sorpresa) è delicata e spiritosa – con più di una linguaccia metatestuale a quella pacchiana e disarmante dei primi film – e la b-story dell’agente sopravvissuto è trascurata e approssimativa ma si salva con l’idea di un web inventato dai Decepticon per spiare la popolazione e privare della sua analogica libertà l’automobile Bumblebee, è la partitura originale di Dario Marianelli forse l’unica nota davvero stonata in questo telaio altrimenti sapientemente armonico e compatto. Anonima senza essere orgogliosamente di maniera come invece è tutto il resto, sembra dialogare più con il fedele bayano Jablonsky della pentalogia che con la (consueta) compilation di oldies che domina qui la colonna sonora, ennesimo timbro sulla patente di operazione nostalgia abilmente camuffato da necessità narrativa (è la voce di Bumblebee).
Franchise in a coma, I know, I know, it’s serious. Do you really think it’ll pull through? Se la retro di Travis Knight rimane ingranata e Bay continua a limitarsi alla produzione, siamo fiduciosi.