Drammatico, Proibiti

BREVI INTERVISTE CON UOMINI SCHIFOSI

Titolo OriginaleBrief Interviews with Hideous Men
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2009
Genere
  • 66434
Durata80'
Sceneggiatura
Tratto dadai racconti di David Foster Wallace
Fotografia
Scenografia

TRAMA

[Film non uscito nelle sale italiane] Dopo essere stata lasciata dal suo ragazzo, una dottoranda in antropologia, Sara Quinn, in cerca di risposte e di un rimedio alla sua angoscia, concentra tutte le energie nella sua tesi che, basandosi su una serie di interviste con uomini, tenta di comprendere la logica del loro comportamento.

RECENSIONI

Pianeta Wallace

David Foster Wallace si afferma, con sempre maggiore evidenza, come la voce letteraria più importante degli ultimi tre decenni, non solo negli Stati Uniti. La scomparsa dello scrittore ha lasciato un vuoto enorme che ha comunicato l’esattezza del suo fenomeno: non solo un talento smisurato, ma anche un catalizzatore di anime affini che hanno trovato nelle sue parole un rifugio di senso, una culla di significati, la dimora condivisa di una comunità che viveva in simbiosi con l’autore e, senza idolatrarlo, ma semplicemente amandolo, si riconosceva nelle sue opere, nella sua sensibilità, nella sua visione delle cose, che condivideva il suo ineffabile dono di dare voce e nome a sensazioni che si ritenevano prima inesprimibili, di fare luce sugli elementi oscuri e vaghi dell’animo rivelando le astuzie interiori messe in atto per fuggire se stessi: un artista che riusciva a investigare i flussi e riflussi dello spirito umano, le sue più sottili ramificazioni, rivoltando il mondo doloroso della soggettività, mostrandolo nella sua indifesa essenza. Quando parliamo di Wallace, insomma, non ci occupiamo solo di quella che David Ulin ha indicato come la capacità di “ripristinare la nozione del romanzo, facendone una tela nella quale lo scrittore poteva fare qualsiasi cosa”, ma anche e soprattutto della sostanziale empatia che l’autore riuscì a creare con i suoi lettori: è da questo incantesimo, da questo stretto senso di appartenenza a un piccolo e tenace pianeta, dalla volontà di darne testimonianza che nasce questo film.

Tradurlo in immagini

Il sostanziale disinteresse del cinema per l’opera di Wallace (a parte un paventato Infinite Jest da parte di Gus Van Sant) conferma l’essenza integralmente letteraria di un’opera in cui forma, sostanza e teoria sono sempre state imprescindibilmente connesse; non bastava quello che lo scrittore raccontava, non bastava il modo in cui lo faceva e non bastava la sperimentazione sui canoni (che mai fa abdicare la partecipazione emotiva dell’artista a vantaggio della nuda scienza letteraria) che veniva ostinatamente perseguita: era quella scrittura - la combinazione di tutti e tre questi elementi - a fare, di un racconto, un suo racconto. In questo senso la riduzione cinematografica del suo catalogo appare un’operazione realmente impraticabile: a cosa servirebbe tradurre in immagini le dinamiche narrative di una novella se la sua essenza non risiede solo nell’aneddoto narrato, ma anche e soprattutto nel fatto che venisse raccontato con quelle parole e secondo l’ostinato wallaciano di riferire e riferire ancora, e in quel suo stile convulso e arzigogolato, fatto di incidentali, corollari autoreferenziali, interruzioni, schematizzazioni e divagazioni strategiche, intervalli metaletterari, note a margine e in calce?  E’ in questo labirinto di righe che emergono delle figure vive come poche, è in questo intrico scritto che esse letteralmente pulsano, eruttando verità riconoscibili che leggiamo dentro di noi prima ancora che sulla pagina.
Come potrebbe il cinema restituire tutto questo? [1]

Partire dalla parola

Che Krasinski sia un abitante del pianeta Wallace non ci sono dubbi: lo dice il fatto che ventenne fu folgorato dalla lettura di Brief Interviews, che cominciò a recitarne dei pezzi nel teatro del college (JK - Il libro è la ragione per la quale recito)  e che da allora ha iniziato a lavorare a un suo (im)possibile trattamento; lo dice anche il profondo rispetto per il volume che questo piccolo e imperfetto film trasuda da ogni fotogramma. L’attore-regista (ha recitato nella serie tv The Office, è stato protagonista di Away we go di Mendes, scritto dall’altro talentaccio David Eggers) parte infatti dalla parola, tentando di riproporre la frammentazione del testo di partenza [2].
L’intento del film è quello di dare alle diverse storie un senso narrativo unitario, legandole a un dichiarato fil rouge, nel testo solo implicito, e che qui suona posticcio, ma che permette alle varie voci narranti di intrecciarsi in una sorta di jam session (il sottofondo jazz/fusion lo rimarca didascalicamente) in cui la struttura risulta sì libera, ma mai arbitraria, anzi, dotata di una sua compattezza e di una coerenza che il finale, retrocedendo nel tempo, afferma con chiarezza.

Il personaggio che non c'era adesso c'è

Il libro non solo non riporta mai le domande poste ai personaggi maschili al centro della narrazione, ma nemmeno rivela chi sia a porle né tantomeno perché: pochi accenni ai luoghi in cui si svolgono le interviste, tutte incentrate sul rapporto uomo-donna, una data e un numero che cataloga il Q&A; Krasinski, inventa allora il personaggio della dottoranda Sara Quinn e la situazione della tesi, azzardo calcolato e inevitabile per dare compiutezza al disegno realizzativo.
L’attenta lettura del libro svela elementi inequivocabili sul sesso dell’intervistatore – checché ne dica il regista [3] è chiarissimo, quando non proclamato a più riprese, che si tratti di una donna e di una donna delusa (quell’hideous è un giudizio di valore che dipinge non tanto gli intervistati quanto il modo in cui vengono considerati da chi li sta intervistando) -, inoltre molti passaggi non hanno affatto il tono dell’intervista, quanto piuttosto dello scambio privato in cui un uomo parla ad una donna in termini franchi del loro precario stare insieme: gli appigli per una sceneggiatura erano dunque minimi e l’impegno per dare forma a quelli che in effetti sono dei monologhi è evidente e inevitabilmente forzato, anche se mai fino al punto da farlo apparire pretestuoso; si può dire che, pur denunciando artificio, l’intreccio risulta dotato di una sua leggiadria: il testo, quindi, attraverso voci che non smettono mai di parlare, rimane protagonista, senza schiavizzare una realizzazione che si mantiene abbastanza spigliata, e in cui i narratori, wallacianamente, tracimano nel racconto, commentandolo.

Tradirlo in immagini

Il film, fatte le debite distinzioni, soprattutto in termini di esiti finali, qui decisamente meno felici, ricorda il pregevole lavoro di Avary su Le regole dell’attrazione: come in quel caso (fermo restando che quello di Ellis era un romanzo e che narrativamente non vi fosse nulla da inventare per collegare le varie storie, già intimamente connesse tra loro) anche in Brevi interviste la preoccupazione principale del regista-sceneggiatore è quella di restituire, con gli strumenti del cinema, lo spirito che pervade l’opera letteraria, la sua non linearità, reinventandone, in quella chiave, alcune soluzioni stilistiche.
Si guardi allora lo splendido racconto sul padre che lavora nei bagni del grande albergo: in quel frangente, il più riuscito del film, si può misurare da un lato la “grave” leggerezza e il senso profondo delle cose che pervadono la poetica wallaciana, dall’altro la capacità del regista di restituirne, alfine, i termini, operando sulla ricostruzione del ricordo, dandogli letteralmente forma e figurazione. L’episodio, giustamente diluito, dimostra quanto, sul resto del film, pesi la riduzione sintetica dei testi, la loro compressione, che non dà mai agio ai personaggi di evolversi nella considerazione dello spettatore: sulla pagina essi si ricavano, all’inizio, da elementi infinitesimali, dettagli secondari, prospettive laterali e, nel procedere, assumono una completa, centrata connotazione, che li definisce in pieno come caratteri complessi, nel necessario collegamento alle storie di tutti gli altri. Anche se la pellicola è molto attenta a non abbandonarsi mai alla tentazione del frammento, alla generica psicologia, riuscendo a fare di ciascuna figura un elemento non monoliticamente individualizzato, ma comprensibile solo attraverso uno sguardo di insieme, lo spirito saggistico, che è il motore del racconto e che realizza quella perfetta visione delle cose che era caratteristica principe di tutte le opere dello scrittore, ha nel film ben poca forza e convinzione.
Si aggiunga poi la meccanicità della trasposizione, dall’interno all’esterno, della continua loquacità dell’opera, mutando le location, creando ambienti vari volti ad accogliere il chiacchiericcio, azzardando una coppia di camerieri come improbabile coro, ma senza nessuna reale elaborazione, anche se viene preservata intatta, nell’iperbolicità ironica tipica dello scrittore, l’onestà e la verità dei caratteri del libro, la resa dei loro processi motivazionali, tanto da palesarli, allo spettatore così come avveniva al lettore, come persone vulnerabili, iper-riflessive, insicure, ma (quasi) mai schifose.

[1] Tanto che potrei arrivare a dire che il l’unico, vero film wallaciano di questi anni non ha giustamente niente a che fare con alcuna opera letteraria di Wallace. Parlo di Synecdoche, New York di Kaufman.

[2] Va ricordato che il volume di Wallace alterna le dichiarazioni degli hideous men a vari altri (meravigliosi) racconti.
Chi scrive consiglia caldamente tutto il libro e ritiene il fermo-immagine di Per sempre lassù uno dei momenti letterari più belli che sia dato esperire, righe supreme che dicono bellezza fino alle lacrime, tremori diffusi, sindrome di Stendhal, insomma una di quelle cose che possono dare un senso al nostro vano passaggio terreno. Mi vengono i brividi al solo pensarci.

[3] Krasinski contattò Wallace prima della lavorazione.
JK – Mi disse “Il libro è un esperimento fallito [...] Volevo scrivere di un personaggio che non si vedesse né sentisse, ma di cui, grazie a tutti i personaggi da cui lei è circondata, si potesse sapere chi e cosa fosse”. Bene, dissi, allora si tratta di una donna. Wow, ci avevamo preso: eravamo a tre settimane dall’inizio delle riprese, quando ho parlato con lui, e il film era già scritto e il cast definito etc. Mi disse: “Credo che lei frequenti una Ivy League School e che stia facendo la sua tesi sugli effetti del movimento femminista sulla psiche maschile”. Ci fu una lunga pausa e lui chiese: “Qualcosa non va?” e io gli ho detto che era esattamente di questo che il film parlava. Gli ho raccontato la trama e abbiamo riso perché lui era molto eccitato dal fatto che avessimo rinvenuto la verità e che l’avessimo trasformata in film.