TRAMA
Una molto varia umanità si raccoglie all’hotel Ambassador di Los Angeles il 5 giugno del 1968, giorno delle californiane elezioni primarie per scegliere il candidato democratico alle elezioni presidenziali. Il vincitore della competizione sarà Robert Kennedy.
RECENSIONI
Il Mito al posto della Storia
In principio fu Altman: l'impianto corale che si eleva a sinfonia e affresco in virtù d'una concertazione di straordinaria complessità e compattezza e d'uno sguardo lucido, immune da lusinghe sentimentali. Quasi mai gli epigoni sono stati all'altezza del maestro (la cui statura giganteggia sempre più, rendendo più profondo il senso di privazione dettato dalla sua scomparsa): mentre cresceva la perizia nella tessitura narrativa – che di certo non difetta a Estevez – meno penetrante si faceva lo sguardo, esposto ai rischi di una sentenziosità d'esagerata ambizione e di una retorica di spropositata altisonanza. Quando le virtù taumaturgiche di una avvincente costruzione drammatica avevano modo di farsi valere – come in certa misura avvenne in Magnolia– il risultato complessivo era persino affascinante. Senonché, le melodrammatiche ridondanze del film di Anderson hanno sostituito l'asciuttezza acre di Altman, imponendosi come nuovo modello espressivo. Da imperfetto e furente esperimento, Magnolia è diventato il paradigma da imitare, il cattivo esempio per decine di autori. Bobby riassume lo stato attuale della questione: un regista “impegnato” – figlio di una delle più amate icone democratiche del cinema U.S.A. - e animato da ottime intenzioni, sia sul piano della rievocazione del mood di un'epoca sia su quello più scopertamente rivolto all'attualità (gli U.S.A. oggi affondano nel pantano irakeno come quarant'anni fa affondavano nella palude vietnamita), che sconta la propria collocazione tutta interna alla crisi che intende denunciare: essa infatti non dipende da questa o quella politica contingente – benché sia assurdo non apprezzarne le differenze – ma da una visione complessiva, dai fondamenti incontestati di unaWeltanschaunng imperiale e paternalistica. Spie di questo corto circuito sono disseminate nel film; si pensi alla lunga divagazione sull'LSD, che dovrebbe restituire le ansie e i sogni d'una generazione ma riesce grevemente didascalica. Ugualmente didascalico, e ugualmente pesante, è il versante etnico-rivendicativo della storia (qui, Estevez sembra il fratello buonista del Paul Haggis di Crash), col capocuoco di colore che impartisce pedagogiche pillole di saggezza agli incazzati colleghi messicani, e il direttore dell'albergo che – da autenticoliberal – licenzia in tronco il sottoposto che si è mostrato sprezzante dei diritti politici dei concittadini di umile condizione.
Il carosello di vicende private non si integra con lo scenario politico – le speranze d'una svolta radicale nella politica degli U.S.A. coagulate attorno alla figura di Bob Kennedy, e infrante dai colpi di pistola di Shiran Shiran – ma gli è continuamente e forzosamente giustapposto; l'uno non spiega l'altro e non ne viene illuminato, entrambi procedono per la loro strada intralciandosi a vicenda. Né il verboso ingombro della traccia privata è riscattato, se non saltuariamente, dalla pregnanza drammatica del suo dipanarsi. Comune ai due piani narrativi è un costante mezzoforte, che evita le note stentoree ma non quelle d'una retorica troppo commossa dalla propria virtù e troppo missionaria nello spirito, tanto da indurre una singolare eterogenesi dei fini: se nelle proposte di rinnovamento radicale di Bob Kennedy l'America migliore vide la strada per uscire dal sanguinoso vicolo cieco del Vietnam e dalla Guerra Fredda, la sua nobile oratoria denuncia a posteriori un tasso di vaghezza almeno pari alla generosità. E dalle parole di Bobby trapela un certo spirito crociato, dal sapore paurosamente simile a quello di altri e tremendi condottieri. Dal film di Estevez traluce così inconsapevolmente, a dispetto del monumento che esso erige a una delle personificazioni più giustamente rimpiante del mito americano, l'ambigua sostanza di quel mito. Piccoli e gustosi omaggi cinefili ornano il film: l'anziano portiere ricorda Greta Garbo e Grand Hotel, i giovani attivisti discutono su Il Laureato e sulla sensualità di Anne Bancroft; star di vario calibro danno lustro all'omaggio al grande democratico e all'esortazione a trovare un nuovo Kennedy che possa liberare gli U.S.A. dalla tetra cappa cheneyan-bushista: ma i personaggi di Anthony Hopkins, Harry Belafonte e Martin Sheen sono inutili presenze, mentre si apprezzano l'antipatia irredimibile di Christian Slater e la dolente maturità di Sharon Stone, un'interprete che molto di rado ha incontrato registi capaci di valorizzarne la bravura. Ancor più sorprendente è la breve, isterica interpretazione di Demi Moore (le cui virtù attoriali ci erano sempre apparse misteriose); il suo duetto con la Stone è la cosa migliore del film: due donne di mezza età – bellezza quasi autunnale, capelli da tingere, volto segnato, doppio mento in agguato – che confrontano le rispettive frustrazioni, la tristezza repressa col sorriso o annegata nell'alcol, la paura che non trova ascolto presso mariti distratti o saccenti, la solitudine indispettita nel rancore o immalinconita nella rassegnazione.
Va subito precisato che la versione di Bobby uscita nelle sale in nulla differisce da quella “work in progress” vista al Festival di Venezia (Estevez aveva affermato che il film doveva essere ancora licenziato e che perciò era suscettibile di cambiamenti). Il regista tenta l’opera corale à la Altman riunendo nell’unità spaziale (l’hotel di Los Angeles nel quale verrà assassinato Bobby Kennedy, location reale di molte scene del film –l’edificio è stato demolito proprio all’indomani delle riprese -) un drappello di personaggi (sono tutti attori riconoscibili, una vera parata di star) ma fa un buco nell’acqua: la scrittura è discontinua, quasi tutte le situazioni in affresco sono incolori, la struttura debole, la retorica più forte di tutto. Mentre alcuni siparietti (quello con Elijah Wood, quello con Martin Sheen) suonano solo come orridi riempitivi, gli altri scricchiolano alquanto e non basta il buon livello attoriale a risollevare le sorti di un film ambizioso (le cucine mettono didascalicamente in scena gli esasperati conflitti razziali dell’epoca) ma inconcludente: il puzzle intimista attraverso il quale si dovrebbe leggere l’idealismo kennediano come una strada di speranza per un cambiamento concreto di una realtà sempre più disgregata (visione politica alternativa che non ebbe mai modo di essere applicata) è semplicistico e privo di spessore. Lo scampolo meta (Demi Moore che parla alla Stone di come il pubblico ti dimentichi una volta che si invecchia) fa sorridere ma è totalmente fuori luogo. Il piglio è da opera indipendente e vagamente artistoide (la camera a mano), i toni variano (si va dall’amaro, al brillante al drammatico, come da prassi in un film del genere) ma è tutto fumo negli occhi, il risultato deludendo sotto ogni aspetto.
Vanificato il consiglio al regista di sforbiciare il predicozzo finale: ce lo sorbiamo per intero. Burp.
Ai tempi de Il Giallo del Bidone Giallo (sua seconda regia, 1990) non pensavamo che, un giorno, avremmo visto il figlio di Martin Sheen dirigere, ma soprattutto scrivere, un’opera di questa portata. Non guarda a JFK, ma a Grand Hotel (citato da Hopkins, anche produttore esecutivo): approccio corale altmaniano molto abile nel montaggio interno ed esterno, con la macchina da presa che segue i personaggi nei passaggi da stanza a stanza. E non è coralità fine a se stessa: ogni carattere è un pezzo d’America, l’hotel si fa microcosmo di finzione mentre, il protagonista “storico”, Robert Kennedy, è presente solo con immagini di repertorio, che omaggiano i suoi discorsi meravigliosi, illuminati (tocca il cuore quello finale sul dilagare della violenza). Altri documenti, ad inizio e fine film, testimoniano in quale baratro fossero giunti gli Stati Uniti, fra brutalità, Vietnam e razzismo. Un modo molto originale di ricostruire gli ultimi giorni di vita di quello che poteva essere un grandissimo presidente: tramandarne il vero volto all’interno di un’affabulazione che rappresenti la vita di tutti i giorni dell’americano medio, con registri anche comici (i due neofiti LSDiani). Lungo, anche dispersivo (l’episodio con papà Martin Sheen è il più insulso), ma la scrittura è fine e con una meta, che non è certo (solo) quella di raccontare tutti i personaggi presenti nel fatidico giorno: l’importante non è il realismo, ma il messaggio (infatti, molti di essi ripetono la frase “Tu sei molto di più di questo”, rivolta invero al Paese). Un gotha di interpreti impressionante, per numero e notorietà, fra cui si staglia, impagabile, l’estetista di Sharon Stone (la scena in cui taglia i capelli al marito mentre gli dice che sa dell’amante!).