Commedia, Recensione

BENEDETTA FOLLIA

TRAMA

Guglielmo Pantalei, proprietario di un negozio di articoli religiosi, non si rassegna all’abbandono da parte della moglie dopo 25 anni di matrimonio apparentemente felice. Ma nella sua depressione quotidiana irrompe Luna, giovane “borgatara” romana, che si candida per il ruolo di commessa nel negozio…

RECENSIONI

Adesso che non c’è più Paolo Villaggio, l’ultima maschera del cinema italiano è Carlo Verdone. Perché al di là delle diverse incarnazioni dei suoi film, il regista ha portato sullo schermo sempre lo stesso personaggio, lo ha seguito passo dopo passo attraverso gli anni, le mode, i mutamenti sociali, aggiornandolo costantemente.
Se la vulgata vuole Carlo Verdone come figlio di Alberto Sordi, se lo stesso Verdone insiste giustamente sulla sua rilevanza e sul debito pagato a tutta una fetta di cinema italiano che ha saputo dare rilievo ai caratteri, a figure secondarie e minori, alla fine, è stata la commedia classica hollywoodiana a svelarsi come il punto di riferimento cardine del Verdone maturo. E quella agrodolce di Jack Lemmon l’anima nel corpo dell’attore. La stessa genesi, nel suo cinema, ha la figura femminile, il costante contraltare del protagonista: oggetto del desiderio e rivoluzione incarnata fin dai tempi di Borotalco, la donna è il ciclone che porta scompiglio nell’esistenza tranquilla, ordinata, metodica (diciamolo, squallida) del protagonista. È il caos che sconvolge la stasi del disagio, è la tempesta che spazza le fittizie certezze, è il terremoto che fa tabula rasa e consente una nuova partenza. È l’irresponsabile verve della Katharine Hepburn di Susanna!, insomma. O della Barbra Streisand di Ma papà ti manda sola? (che era già rielaborazione teorica e rilettura di quella stessa matrice). Che sia la poetica svampitezza di Eleonora Giorgi (Borotalco è ancora il film perfetto del regista), la vulcanica strafottenza di Ornella Muti (per Io e mia sorella non a caso si parlò di un remake americano) o la svagatezza pazzarellona di Claudia Gerini (Sono pazzo di Iris Blond), il risultato dell’incontro col femminino è sempre la visione spassionata sul proprio vissuto, discutibile eppure mai messo in discussione. Perché la donna dei film di Verdone è in apparenza svitata, ma nella realtà più concreta e vitale dell’uomo col quale si confronta, è una creatura che rischia e che la vita la assapora davvero, in ciò costituendo, per colui che la incontra, un esempio. Così non sorprende che uno dei mantra di Benedetta follia decodifichi questo schema: «Non voglio esistere, voglio vivere» lo potrebbero dire tutti i personaggi impersonati da Verdone in questi anni, baciati dalla rivelazione fatta donna e decisi finalmente a prendere la propria esistenza in mano.
Se gli ultimi film mettono in evidenza un modello produttivo che tende un po’ a imbavagliarlo, sono anche opere nelle quali le istanze del Verdone maturo si riconoscono in maniera più netta: film evidentemente compromissori, ma con lampi che rivelano le ambizioni del regista nella costruzione di una commedia di costume che rechi le marche della tradizione hollywoodiana (citazioni e omaggi sottopelle) e in cui a rilevare siano i meccanismi che sovrintendono i rapporti umani all’ombra del feticcio contemporaneo di turno. Posti in piedi in Paradiso, da questo punto di vista, mi pare la più rilevante: portentoso nel suo perseguire il modello wilderiano (anche il successivo gioco quasi-teatrale di Sotto una buona stella si rifaceva a quel prototipo), è un film di mesta cattiveria nel disegnare i suoi caratteri, disilluso sulla temperie, che vanta una prima parte riuscitissima (la bella idea della convivenza forzata di Verdone, Giallini e Favino è assecondata da una scrittura frizzante e da ottime interpretazioni), di slapstick vivacissimo e col picco dell’apparizione di Micaela Ramazzotti (la scena in cui irrompe in casa: forse il vertice comico dell’ultimo Verdone); nella seconda parte purtroppo il calo sfiora il tracollo, ma amen, di tanti film del regista bisogna prendere quello che più ci aggrada e tralasciare il resto.

Benedetta follia è il tipico film di Verdone di questi anni Dieci: guarda al passato (l’inizio è ambientato nel 1992 e ci presenta l’attore con bandana in moto, come in Troppo forte), vive il presente (la moto è chiusa in un garage e il personaggio si è incartapecorito nel grigiore del negozio di servizi liturgici) e si confronta con l’attualità (il possibile nuovo matrimonio della moglie che si scopre lesbica, la app per il dating).
Lo schema è quello consolidato: la ragazza-angelo piove letteralmente dal cielo e diventa, senza elaborazione alcuna, presenza stabile della vita del protagonista (perché quello che conta è il ruolo del personaggio nella vicenda e non la giustificazione posticcia del modo in cui lo assume); si gioca di contrasti: quindi alla irreprensibilità del contesto (il negozio) fa riscontro la mise provocante e l’assoluta informalità di Luna; l’esistenza di Guglielmo viene trasformata: il dolore per l’addio della consorte si converte in una ronde di donne; di qui gli sketch che variano sul tema, in tono con la personalità incontrata: la beona, l’ipocondriaca (duetto molto ben scritto - «Posso leggerti qualcosa di mio?» -), la fatalona (la pochade volgarotta che garantisce il riso in sala), anche se (ecco il moralismo del verbo verdoniano, anch’esso tutto di tradizione) l’amore lo si trova per caso e il device è declassato a mero latore di messaggi (con altri gag legati all’incapacità nel gestire l’aggeggio - che è tutto un modo per dire che Verdone invecchia e tenta a modo suo di restare al passo coi tempi -).

E qui si viene al punto. Se Benedetta follia è importante è perché porta il personaggio verdoniano alla resa dei conti con lo schema, rendendo evidente l’impossibilità di applicarlo come ai vecchi tempi: così Luna, la ragazza-tsunami di turno, non è più impalmabile, è piuttosto una creatura da proteggere. Così Verdone, nei confronti della fanciulla, non è più un possibile innamorato, ma il possibile padre (così come, arrivato a una certa età, Fantozzi non era più rappresentabile come impiegato, ma come pensionato). La ragazza non è più un amore, ma conserva la tradizionale funzione di tramite della trasformazione esistenziale del protagonista, di viatico al mutamento di prospettiva.
Per il resto il film è una gradevole, fragile commedia (meglio concepita del precedente L’abbiamo fatta grossa, titolo a dirne bene zoppicante), con un suo bel buco - i figli, visti all’inizio, spariscono dal film -, che accanto al detto update poetico, all’omaggio hollywoodiano (uno per tutti: la recita per far ingelosire la moglie - Indiscreto -) e al raffronto col passato, aggiunge anche la parentesi in cui il regista manifesta quell’impulso a sfuggire al format rassicurante e a sperimentare un po’. Tutta la sequenza allucinogena, con i colori acidi, il balletto à la Lebowski fatto in green screen e coreografato da Luca Tommassini, è davvero la licenza che il regista si concede dal discorso canonico che lo incatena.
I film di Verdone continuano quindi a vivere in questa terra di mezzo, tra costruzioni studiatamente medie e fughe in avanti verso l’autorialità, sempre imperfetti, con inciampi improvvisi e agganci a volte un po’ esili, ma continuando a rappresentare un modello senza termini di paragone nel nostro panorama cinematografico: nessun altro autore di commedie è durato così tanto, si è sforzato costantemente di raccontare un pezzetto dell’oggi (si riguardino i suoi vecchi film: fotografie del loro tempo) trovando costantemente un pubblico.
Così come non può non dirsi della capacità di Verdone di tirare fuori il meglio dai suoi interpreti: in questo film tutte le figure femminili che roteano attorno al protagonista vantano una mirabile giustezza di toni, anche quando si devono confrontare con cliché abusatissimi (come non lodare Ilenia Pastorelli alle prese con la “burina”?).