Commedia, Drammatico, Focus, Grottesco, Horror, Streaming

BEAU HA PAURA

TRAMA

Credendo di vivere in un mondo terrificante, Beau Wasserman tiene a bada l’ansia grazie a medicinali e visite dal suo terapeuta. Tuttavia, un viaggio per visitare sua madre si trasforma in un’incredibile avventura.

RECENSIONI

Beau è un corto di Ari Aster del 2011, dura poco più di 6 minuti, racconta di un uomo di mezza età che, visibilmente nervoso (e trafelato), è in procinto di andare a trovare la madre ma gli vengono (forse) rubate le chiavi di casa, non può più partire e da lì la sua vita diventa un incubo paranoico. Alla fine, si scopre – ma lo sapevamo già - che la madre è un/il mostro e causa di tutte le sue paure. Dilatiamo il minutaggio fino a 30 volte tanto e otteniamo Beau Ha Paura. La storia, se vogliamo parlare in termini sommariamente sinottici, è la stessa. E anche il senso complessivo, a ben vedere, è lo stesso. Perché il terzo film di Ari Aster, nella sua apparente, ipertrofica, complessa anarchia, è in realtà molto semplice da seguire e non richiede chissà quali sforzi interpretativi: si tratta di un incubo freudiano fino – e oltre - al didascalico in cui una madre castrante (letteralmente: ha convinto il figlio che il primo amplesso gli sarà fatale) ha rovinato la vita al suo piccolo Beau, che ora va per la cinquantina, ne ha le palle piene (letteralmente: soffre di un’orchite spaventosa) ma (ne) rimane succube e non riesce a liberarsi dei suoi incubi, dei suoi sensi di colpa e delle sue paure, che lo ossessioneranno per sempre.

Nel mezzo, ovviamente, c’è “un sacco di roba (apparentemente) strana”: meta-rappresentazioni  esegetiche (splendidamente) animate, simboli fallici che non sono affatto simboli ma enormi falli mostruosi (e citano Starship Troopers), ritorni nel grembo materno (dove era iniziato tutto, anche il film) divenuto tribunale prima e inquisizione poi (e infine). E molto altro. Conviene almeno citare la sequenza (direi lynchiana, se non avessi qualche remora e un po’ di pudore) in cui, sul canale 78, un circuito chiuso mostra il passato, il presente e il futuro di Beau (Ha Paura), inquadratura per inquadratura, fino al finale. Vezzo, quello meta-rappresentativo, che Aster aveva già palesato nell’esordio (Hereditary) e poi confermato in Midsommar che, come si ricorderà, era disseminato di disegni, murales quadro-nel-quadro e arazzi anticipatori che raffiguravano nel dettaglio il destino del protagonista. Perché, al di là dei vezzi, è ormai abbastanza evidente che Ari Aster stia portando avanti un discorso perfettamente sensato e coerente, col filo rosso dei legami parentali/sentimentali a rendere organico questo primo trittico filmografico: famiglia, rapporto madre-figlio, elaborazione del lutto, ereditarietà (Hereditary) dei tratti (e delle colpe) genitoriali; sono questi (insieme al rapporto di coppia, centrale in Midsommar), i temi attorno a cui ruotavano i primi due film e che in Beau Ha Paura esplodono centripeti, senza però disperdersi.

Perché, come già accennato, le tre ore di magma allestite da Ari Aster sono solo apparentemente caotiche ma, se si accettano le regole oniriche del gioco e ci si lascia trasportare dal flusso, la (non) storia (che poi è la vita intera) di Beau e del suo rapporto malato con la madre segue una linea retta perfettamente intelligibile che si fa addirittura rocambolesca, avventurosa, avvincente, ricca di sorprese. E ci si diverte. A proposito di Midsommar, nella recensione scrivevo del progressivo emergere di una componente umoristica sempre più marcata, benché sostanzialmente inafferrabile, una comicità grottesca talmente vincolata ai risvolti più drammatici/horrorifici del film da non lasciarsi isolare né – quindi – riconoscere per quello che è: devo ridere? Posso ridere? Veniva spesso da chiedersi. Ari Aster ha poi risposto di sì, ché parlando proprio del nuovo film ha dichiarato: “riparto da dove avevo finito perché per me Midsommar era quasi una commedia, non doveva assolutamente essere rappresentato come un film spaventoso”. E’ ovviamente difficile stabilire quanto un’affermazione del genere sia da prendere alla lettera ma l’interpretazione autentica ci dice che è (ri)partito da una commedia e che quindi Beau Ha Paura è sostanzialmente una commedia. Ed è una commedia, ripeto, divertente. Divertente in senso – ormai possiamo dirlo – asteriano. Non dobbiamo, cioè, aspettarci di cogliere veramente l’ironia o di ridere in senso vero e proprio ma di essere investiti da quella sensazione di straniamento comico che si prova leggendo Kafka o guardando Lynch.

Stilisticamente parlando, Ari Aster si conferma regista elegante e controllato, “sobrio”, verrebbe quasi da dire. Qualche movimento di macchina appena più marcato c’è, ci sono lunghe inquadrature che stringono impercettibilmente su Beau nei momenti giusti ma nel complesso, lo sguardo del regista, o meglio la sua qualità di sguardo, la si riconosce soprattutto nella composizione del quadro e nell’allestimento di un profilmico nel quale bastano, spesso, pochi elementi (de)contestualizzati a (per)turbare, nella statica potenza del piano fisso. Chiudiamo con due parole su Joaquin Phoenix, chiamato a un compito ingrato: stare sullo schermo per tre ore consecutive sempre agitato, turbato, afflitto dai sensi di colpa, impaurito. Come ne esce? Diciamo bene. Non sfugge completamente al pericolo della prova monocorde ma vista la durata (e la natura) del film, e visto il personaggio che deve interpretare, sarebbe stato esoso fino all’ingiusto chiedergli di più.

Non sono solito scrivere in prima persona ma, per Beau ha paura, credo che un certo grado di personalizzazione sia necessario. Questo perché nella mia relativamente giovane memoria cinematografica – una memoria da amante del cinema, per carità, non certo da recensore –, l’ultima fatica di Ari Aster è il film di cui ho sentito parlare e visto scrivere peggio (ex aequo, forse, con Solo Dio perdona di NWR). Tra chi lo considerava una sessione onanistica di tre ore, un ingiudicabile esercizio di stile autoindulgente (critica che, ciclicamente, in una veste o nell’altra, fateci attenzione, torna a ogni nuovo film surrealista) o un film-UFO incapace di dialogare col contemporaneo, il risultato finale è stato quello di una totale diserzione critica. Peccato, perché sono convinto che Aster sia uno di quei pochi giovani autori la cui penetrazione sia stata accompagnata, e in un certo senso provocata, dal patrocinio giornalistico quando, all’uscita di Hereditary, furono le ottime recensioni che gli giravano attorno a far salire il numero di spettatori al cinema e, per una volta, non viceversa. Oggi, degradare il dialogo attorno a Beau ha paura e quindi, di rimando, attorno a uno dei pochi autori ancora capace di far discutere (il che sarebbe un merito da poco se la costante del dibattito sulla settima arte non assomigliasse a un elettrocardiogramma piatto), nonché di crearsi una stuoia di ammiratori e di odiatori e di suscitare reazioni scomposte in sala (ricorderete tutti le risate isteriche del pubblico durante Midsommar) e fuori, derubricare il film a una perversione del suo autore o limitarsi a considerarlo un flop da trentacinque milioni di dollari per l’A24 (le discussioni sul botteghino, iniziano, tra l’altro, a stancare) non mi sembra significhi stare dalla parte della storia del cinema. In particolare perché Beau ha paura, a discapito della sua apparente complessità, è un film molto semplice che, però, del contemporaneo (e del cinema contemporaneo) dice molto: è un film su uno sguardo ingerente, totalizzante, castrante (Beau è convinto che morirà al primo orgasmo durante il coito) di una madre che deforma a sua volta lo sguardo del figlio, impedendo ogni mediazione tra lui e il mondo. E così, Beau, un quasi-cinquantenne incapace di liberarsi dai fantasmi della sua mente, maldestro nel distinguere la realtà dal sogno («Non ci arrivi, stupido idiota, non era un sogno, era un ricordo!» [1] gli dirà la madre), inadatto a vivere il presente delle sue relazioni, inefficiente, ansioso, in perenne stato allucinatorio e intrappolato nel suo ego, ha paura, è terrorizzato dall’altro ed è incapace di orientarsi in una città violenta, schizzata, inafferrabile; e, in questo, la pellicola tira le fila di tutti quei film distribuiti negli ultimi anni che presentano personaggi arroccati nella propria psiche e che leggono i segni della realtà esterna in una grande fantasia lisergica, generando simulacri su simulacri e proiettando se stessi sugli altri – il Suspiria di Guadagnino, Bussano alla porta di Shyamalan, Under the Silver Lake di David Robert Mitchell, solo per dirne alcuni, inserendovi però una sostanziale variazione sul tema, ovvero che Beau nemmeno si sforza di interpretare il mondo, perché il mondo lo ha già inghiottito e soffocato.

Per il lamentoso protagonista, perenne tormentato, sconfitto a priori, non esiste futuro perché non esiste alcuna consequenzialità (contate il numero di ellissi e schermi neri a cui ci costringe Aster) ma solo zapping cerebrale, omissioni, stacchi privi di nessi logici che lo portano da un luogo all’altro della sua mente senza poter formulare un pensiero compiuto o apprendere nulla, in un circuito chiuso di rappresentazioni senza rilascio finale alla fine delle quali si ritrova ostinatamente – come nelle scale di Escher o in quell’acqua che torna e ritorna in qualità di elemento specchiante e dalla quale, moderno Narciso, verrà risucchiato nel finale – sempre e comunque a se stesso, alle proprie fobie e al proprio senso di colpa, quello, in particolare, di non essere riuscito a far visita alla madre prima della sua presunta morte. Non a caso, in una sequenza capitale, nella casa dove viene ospitato in seguito a un’aggressione subita, accendendo la televisione, altro non vedrà che se stesso immortalato attraverso l’inquadratura dall’alto di una camera di sorveglianza (dalla posizione dove stava la casa-super-io della madre di Norman Bates in Psyco), ripreso nell’atto di guardare quello stesso televisore su cui Aster mostrerà dei frame del futuro del film e quindi di Beau, come un’auto-profezia che si auto-rivela in un auto-rappresentazione. Beau vede se stesso in tutto e in tutti (e, infatti, quante persone senza volto, prive di identità ci vengono mostrate, che sia la foto sfocata del padre assente per tutta la vita, mero fallo, la madre decapitata o le maschere talvolta fisiche talvolta digitali della messinscena teatrale nel bosco?): è lui l’attore principale di pièce che inevitabilmente diventano meta-narrazioni sulla sua vita, è lui sullo schermo televisivo, è lui ad aver ucciso la madre con la sua assenza, è lui a dover finire sul banco degli imputati in un grande giudizio universale, come se nient’altro esistesse. È sempre accerchiato (quante persone lo guardano minacciose durante il film?), Beau, sempre con le spalle al muro (incredibile, Joaquin Phoenix che vaga per il globo con il collo inarcuato in avanti e la schiena protratta all’indietro), accusato dalla Storia (un veterano di guerra lo insegue col fine di ucciderlo), tacciato di crimini indicibili (una bambina si suicida davanti ai suoi occhi e lui non riesce a fermarla) e incapace di orientarsi e ribattere alle atrocità a cui assiste, bombardato al punto dal rumore circostante da non essere in grado di elaborare le informazioni che riceve se non letteralmente, finendo così, ad esempio, con l’avere un attacco di panico per non aver bevuto un bicchiere d’acqua in seguito all’assunzione di una medicina. D’altronde, però, non ne sono in grado nemmeno le persone attorno a lui, una schiera di Beau-cloni che lo vessano per non aver abbassato uno stereo che in realtà non ha mai acceso (il vicino), lo minacciano per aver impugnato un’arma che tale non era (il poliziotto), lo condannano semplicemente per essere nato (la madre), lo odiano per non aver pagato pochi spicci al supermercato mentre sta ancora cercando le monete (il cassiere). Privo del pensiero figurato e di ogni capacità decisionale, in balia di un pianeta paranoico, sotterrato dal chaos, Beau, quindi, forse fa bene ad avere paura, perché è accerchiato da un’umanità identica a lui, incapace di interpretare l’altro, di leggerlo, di empatizzare (e non era forse anche Midsommar un film sulla fine dell’empatia? Sull’incomprensione del sentimento amoroso?) con chi gli sta davanti, come la ragazzina depressa che gli è ostile per la sua stranezza e lo costringe a fumare una canna in modo da condividere il video sui social. Ma si fugga la tentazione di leggere Beau come un idiota dostoevskiano (questa, sì, sarebbe una vera forma di autoindulgenza), un uomo talmente puro da restare vittima del mondo che lo circonda. Glielo spiega la madre stessa, resuscitata per continuare a punirlo: «Hai speso la tua intera vita a chiedere a qualsiasi cretino che trovavi “se faccio questo, posso evitare questo o succederà comunque?”, come se fossi nato senza il meccanismo per scegliere! Lasci che tutto si risolva nella tua assenza! Lasci che chiunque scelga per te! Pensi che questo ti renda innocente?» [2]. Insomma, Beau, sei solo un idiota.

[1] Don’t you get it, you stupid idiot, that wasn’t a dream, that was a memory! 

[2] You spent your whole life asking every half-wit you could find, “If I do this, can I avoid this, or will that happen?”As if you were born without the mechanism to choose. You let it all resolve in the absence of you! You make everyone do it for you! You think that makes you innocent?

madre!

La citta delle donne (1980)

A mò di postilla, stanti i due esaustivi contributi precedenti, aggiungo un’unica suggestione: la messa in scena della tormentata elaborazione del senso di colpa primario di Beau, del complesso edipico irrisolto nei confronti di una madre manipolatrice-castratrice, mi pare assumere il tono visionario e le caratteristiche simboliche dell’opera felliniana. Da subito ho pensato a La città delle donne, un’escursione onirica nel femminile la cui rappresentazione, come in questo caso, assume caratteri minacciosi ed è elaborata attraverso un filtro spudoratamente soggettivo. Anche nel film di Aster si dipana un itinerario disorganico, in cui episodi e personaggi si assemblano in modo apparentemente incoerente, in un coacervo di situazioni via via più soffocanti, in cui a prevalere è il senso di spaesamento del protagonista rispetto a un circostante alieno ed enigmatico. Come in La città gli archetipi si affermano come tali e il vagare assume i caratteri di un’esplorazione che tende a un obiettivo opaco, ma sottinteso. Che si fa alla fine manifesto: il processo inquisitorio, celebrato da un tribunale interiore, che si conclude con una condanna (lì inflitta al Maschio, qui al Figlio). Beau ha paura mi suona, dunque, come un saggio di immaginazione paranoica in tutto similare al film del 1980 e come quello tempestato di epifanie vere e false, che esplora criticamente cliché (quello materno come amore incondizionato, per esempio), che sostituisce e altera perversamente immagini e figure (i genitori “supplenti”, l’analista “venduto”), che stilizza e incornicia tappe esistenziali, antropomorfizzando istanze psicologiche, rendendole orripilanti (il Pene-mostro - lo chiamiamo Katzone? - segregato e urlante: più felliniesque di così…). Un trip psicanalitico che mescola Kafka (fissa del riminese) con Dante (idem) in un’odissea-sogno immaginata come un sistema chiuso in logiche egoriferite (la paura, su tutte, ça va sans dire) e che, esplicitando il teatro mentale (in La città era il cinema), obbliga il protagonista a stagnare nella propria distorta rappresentazione, rendendogli impossibile gestire un ritorno alla realtà (il finale non libera Beau). 

Che molta critica (non solo italiana) di fronte a questo film rimanga disorientata lascia interdetti: siamo davvero arrivati al punto che non porre freni alla propria capacità immaginativa concreti un rischio di insofferenza o rifiuto degli addetti ai lavori, i primi che dovrebbero accogliere queste opere fuori canone a braccia aperte nell’epoca del tutto chiaro «come un lago senza fango»? Rimanendo Aster, peraltro, perfettamente lucido rispetto al perimetro e ai confini della propria creazione (anche Aronofsky in madre! - altro titolo che si faticò a elaborare - non perdeva mai la bussola nella “grande confusione”)? Sembra davvero che più un regista pratichi una strada originale e inaspettata più venga attaccato, come se l’allontanarsi dalla norma non fosse mai un merito, ma sempre e solo una manifestazione di arroganza (e comunque benvenuta arroganza se l’alternativa è l’omologazione). Se poi il cineasta è americano, apriti cielo (a meno che non sia Lynch, da cui anche i più tignosi accettano tutto, fingendo di capirlo sempre).
Ma ce lo siamo dimenticati il cinema degli anni 70? 

Un altro piccolo paradosso: nella videomusica, dove si ha a che fare tendenzialmente con un pubblico più giovane e meno sovrastrutturato, questo tipo di rappresentazioni sono all’ordine del giorno e pacificamente accettate. Un nome su tutti, The Weeknd: sono anni che il canadese (parliamo di una delle massime star in circolazione) ha piegato la sua videografia a una dimensione sottilmente autorappresentativa, nella quale il suo status di divo della musica convive con un tormentato, "mostruoso" alter ego a più facce, protagonista di storie sfuggenti, oniriche, arcane. I clip realizzati da Grant Singer (in questi giorni il suo magnifico debutto nel lungometraggio, Reptile, è su Netflix) per il suo album del 2016 Starboy raccontano, sotto forma di parabola faustiana, il patto col diavolo per raggiungere fama e successo e lo fanno secondo un registro apertamente visionario, di metafore sfuggenti e immagini ossessive. Discorso ribadito con l’album successivo, After Hours (2020), il cui clamoroso riscontro diventa perfetto controcampo all’inquietante, criptico videociclo diretto da Anton Tammi (ne ho detto all’epoca). Ma soprattutto i clip legati a Dawn FM (2022) collocano il Nostro al centro di una messa in scena oscura e angosciante fino a rappresentarlo invecchiato a riflettere sul suo burrascoso passato (ovvero il presente) fatto di alcol, droghe e sesso occasionale. E a confrontarsi con il suo giovane, attuale doppelgänger che vuole ucciderlo, vedendo in lui la rappresentazione della sua futura sconfitta esistenziale (o almeno io l’ho letta così). La difficile interpretazione di quello che è un mondo narrativo furiosamente autoreferenziale - che si muove parallelamente al songbook dell’artista - non ha mai disorientato nessuno, anzi ha innescato una ridda di ipotesi e di ricostruzioni possibili, una sorta di cordata social in cui ogni contributo ermeneutico è stato valutato, discusso, accolto con curiosità. Aggettivi come incomprensibile, arrogante, pretenzioso - e via frustrandosi - non si è permesso di pronunciarle nessuno. E parliamo di musica pop. Fate voi.