Avventura, Focus, Recensione

AUSTRALIA

TRAMA

Australia: un’aristocratica inglese si reca in Australia dal marito (lì per affari) e scopre di essere diventata vedova. Nel frattempo incontra il bambino “mezzosangue” Nullah e un bel Mandriano, mentre il cattivissimo Fletcher trama alle sue spalle. E siamo solo all’inizio.

RECENSIONI

Il cinema di Luhrmann è una specie di liquido di contrasto. Romeo+Giulietta prima e Moulin Rouge hanno come evidenziato e fissato i tratti più macroscopici del cosiddetto cinema postmoderno (meglio compreso come post-strutturalista, secondo Noël Carroll) tradizionalmente inteso, di cui si tentò una prima teorizzazione già negli anni '80: annullamento della distanza tra cultura alta/colta e bassa/popolare, esasperata frammentazione, stili e stilemi del passato (qualunque passato) indifferentemente parodiabili e pastiche-iabili, sfrenato citazionismo, autoconsapevolezza ammiccante quanto esibita. E dunque: Shakespeare letterale ma californizzato, condito da cinema di Hong Kong, camicie hawaiane, pistolone fumanti e speroni - o ancora - musical hollywoodiano classico in cui convivono Belle Epoque e Kurt Cobain, George Méliès e Madonna, Toulouse-Lautrec e Bono Vox. Il tutto, ovviamente, assai colorato, sfarzoso, chiassoso, con l'occhiolino perennemente strizzato e un ritornello infinito -sono volutamente kitsch quindi sono assai cool- o giù di lì. Non nascondiamo la nostra sostanziale indifferenza di fronte a questi precedenti luhrmanniani che, godibili a tratti, ci sono sempre parsi artefatti e posticci, studiati con troppa evidenza a tavolino e privi di un vero centro/cuore che facesse loro compiere il grande salto dall'operazione all'opera, o almeno all'operetta. Australia segna però una correzione di rotta. Sarà forse per un coinvolgimento emotivo in un progetto che interessa 'la sua terra', fatto sta che Luhrmann sembra abbandonare gli eccessi di dispersiva (e per molti versi pretenziosa e pretestuosa) frammentazione per mettere a fuoco, quadrare e circostanziare. E ci guadagna in freschezza, nei limiti di quanto possa apparire e fresco e spontaneo un film che è comunque una nuova luhrmannata. Stavolta si punta dritto all'età dell'oro di Hollywood, col nume tutelare di Victor Fleming che aleggia fin dalla prima inquadratura (riproposizione semi-letterale del noto albero-su-tramonto-arancione di Via col vento), per costruire un (meta)filmone d'altri tempi, 'come non se ne fanno e non se ne vedono quasi più', si legge sui quotidiani. Via col vento rimarrà il referente privilegiato e ri-citato 'alla sequenza' (il ballo-asta), oltre che riproposto a livello di struttura generale (la storia d'Amore con la Storia sullo sfondo) e come exemplum di dinamiche relazionali cui attingere (il battibecchio sentimentale/esistenziale dei protagonisti). Ma Luhrmann resta Luhrmann e frulla dentro anche altro: c'è un modus filmandi à la David Lean, c'è il Western, e un western in particolare - Il fiume rosso di Hawks - del quale la parte centrale di Australia è una sorta di piccolo remake, ci sono giochetti obliqui su Fleming (Il mago di Oz) che 'approfittano' delle coincidenze temporali (il 1939, l'anno in cui iniziano le vicende di Australia, è proprio quello di Via col vento e del Mago di Oz) e che tirano dentro anche la diegetizzazione delle musiche (Somewhere over the Rainbow cantata nel film, sentita al cinema nel cinema, continua presenza carsica nello score di Hirschfeider e accennata anche, in anacronistico postmodernariato, nella cover di Israel Kamakawiwo'ole) e c'è infine, a sottendere il tutto, l'autoreferenzialità insita nell'operazione di un regista australiano di successo che dirige un film dal titolo Australia con cast quasi all australian. Ma stavolta, fortunatamente, c'è anche un film-testo che vive di vita propria, non necessariamente ipertestuale. Perché Australia, in fondo, non destruttura il kolossal hollywoodiano per il solo gusto di farlo e magari di elucubrarci su ma opera una specie di destrutturazione 'terminale' tornando, di fatto, al kolossal (ci viene in mente il concettualmente assimilabile Cabin Fever, la cui prima parte era horror di grado indecidibile). Il vecchio giocattolo sarà pure smontato, insomma, ma funziona esattamente alla vecchia maniera. C'è il minutaggio (programmaticamente) generoso, c'è l'ampio respiro, c'è una sceneggiatura solida che miscela ironia e dramma con grande competenza (i primi 45' ci sono parsi particolarmente divertenti e davvero ben scritti), c'è la regia dovutamente magniloquente (profluvio di dolly, campi lunghissimi digitalmente manipolati, plongée 'divine', come quella che chiude la sequenza della morte di Daisy), c'è l'azione epicamente intesa (la sequenza della fuga della mandria, fortemente memore della corsa dei brontosauri nel King Kong jacksoniano), la commozione 'inevitabile' (il doppio epilogo della stessa sequenza), i buoni buoni e i cattivi cattivi, la didascalicamente bella fotografia, la gemmazione dei finali (se ne contano almeno tre) e infine ci sono gli attori, come si dice, in parte, specie la Kidman che dà l'impressione di divertirsi molto in questo ruolo old style a fianco di Jackman, intenti entrambi ad emulare/riproporre coppie dalla chimica storica come la Leigh/Gable, Hepburn/Tracy, Bacall/Bogart.

In attesa che il canadese Guy Maddin diventi noto ai più, Baz Luhrmann resta il re del postmoderno. Il suo è un cinema che non si accontenta di citare il passato ma lo fa rivivere attraverso un amalgama colorato e frastornante di stili differenti. Se Ballroom - Gara di ballo è una commedia deliziosa e Romeo + Juliet traspone un classico con geniale modernità, già Moulin Rouge evidenzia un gusto per il pastiche che eccede senza trovare una misura. Con Australia, che non ha dalla sua né la freschezza del debutto, né la bellezza dei versi di Shakespeare, e nemmeno un tessuto musicale forte e a suo modo rivoluzionario, lo stridore si amplifica e i rimandi a un cinema classico, ma anche potente, cadono nel vuoto. Insomma, Luhrmann solletica l'intelletto ma non scalda il cuore. Poco male se il racconto non ambisse invece a tutt'altro. L'intento dichiarato è infatti quello di raccontare addirittura un continente, fondendo alcune storie con la Storia. Si comincia con una fastidiosa voce fuori campo che dovrebbe essere anticamera del mito e finisce invece per schiacciare l'epopea sotto il peso della ridondanza. Un improbabile bambinello meticcio sgrana quindi gli occhioni e dà il via alla narrazione, che gioca con alcuni cliché non riuscendo però mai a dominarli: lei apparentemente fragile, lui macho e ruvido, insieme per forza nell'Outback australiano. Il copione prevede una iniziale antipatia, poi la passione, l'ineluttabile separazione e infine l'amore eterno. Tutto molto prevedibile, ma sempre efficace se condotto con un minimo di sensibilità e attenzione alle caratterizzazioni. Nella sceneggiatura, invece, le cose accadono solo perché è previsto che accadano, dai battibecchi iniziali (inutilmente sovraeccitati, ti aspetti da un momento all'altro che saltino fuori Franco e Ciccio), alla passione (perché l'ostilità si trasforma in amore? Ah, perché lei gli insegna a ballare il foxtrot dietro a un albero!), alla separazione (vivono felici e contenti ma lui di punto in bianco decide di andarsene; ah, sì, in quanto spirito libero), fino all'amore (anche gli spiriti liberi si redimono). Non solleva dai limiti dello script lo stile antinaturalistico di Luhrmann, con una costante sensazione di posticcio che alimenta il distacco dal narrato, dai cieli fucsia alla palese, e sicuramente ricercata, falsità di luci e scenografie. Manca un equilibrio nella sua visione in grado di rendere credibile il melodramma e non meramente fine a se stesso l'utilizzo degli stilemi del passato. Se a questo si aggiungono gli orribili effetti digitali, nessuna sequenza in grado di rendere palpabile l'ampio respiro e l'assenza di alchimia tra i due protagonisti, il disastro è pressoché totale. L'unica trovata interessante è più che altro di costume. Colpisce infatti che l'oggetto del desiderio (forse per compiacere il primario target di riferimento?) sia declinato al maschile invece che al femminile. È lui che non ha nome e si fa chiamare semplicemente "Drover" (il mandriano). È lui che improvvisa una (ridicola?) doccia con la borraccia mostrando i muscoli guizzanti mentre lei è sempre strizzata in abitini piuttosto casti. È lui che tutti attendono sbarbato ed elegante al ballo, novello “Cenerentolo” alla prova del pubblico. Tolto questo aspetto e poco altro (il riferimento meta-cinematografico a Il mago di Oz, comunque assai forzato, e l'attenzione alle "generazioni rubate"), il filmone scivola nell'indifferenza, moltiplicando oltremodo i finali e facendo sorridere laddove vorrebbe invece commuovere. Del cinema d'altri tempi conserva quindi la forma, ne ripercorre le tracce, forse ne possiede anche l'anima, ma non certo lo spessore.