Biografico, Drammatico, Recensione, Thriller

ATTACCO A MUMBAI

Titolo OriginaleHotel Mumbai
NazioneAustralia
Anno Produzione2018
Durata123'
Basatosul documentario Surviving Mumbai sugli attentati di Mumbai del 26 novembre 2008

TRAMA

Nel 2008 sbarca dal Pakistan, nel quartiere di Colaba a Mumbai, una piccola imbarcazione con dieci giovani armati fino a denti. Attaccheranno la grande città indiana colpendo nel nome di Allah punti di grande concentrazione umana, come la stazione ferroviaria, e luoghi simbolici dell’opulenza e dell’influenza occidentale, come l’hotel a cinque stelle Taj Mahal. Qui un cameriere coraggioso, una coppia per metà americana che ha appena avuto un figlio, un imprenditore russo, uno chef abituato alla leadership e molti altri cercano di sopravvivere al massacro in corso.

RECENSIONI

Gli attentati di Mumbai del novembre 2008, con particolare attenzione per gli avvenimenti all'hotel Taj Mahal, portati in scena da Anthony Maras nel suo Attacco a Mumbai – che i titolatori italiani ci tengono a sottolineare si tratti di una vera storia di coraggio – hanno qualcosa di diverso dai prodotti hollywoodiani a lui affini. Non tanto nella forma quanto nel contenuto. Visivamente infatti il film si inserisce perfettamente nel filone americano dedicato ad attacchi terroristici, di origine fittizia o meno, come Attacco al potere - Olympus Has Fallen e Boston - Caccia all'uomo, di cui ne scimmiotta ritmo e natura emotiva, in bilico tra il voler fare una ricostruzione il più possibile dettagliata degli eventi e allo stesso tempo drammatizzare il tutto per meglio coinvolgere il pubblico, farcendo la trama con esili vicende personali e una tecnologia che fa sempre cilecca nel momento di massimo bisogno dello sceneggiatore. Attacco a Mumbai però si distanzia dai suoi simili nei cardini attorno ai quali viene fatta ruotare la vicenda. Al centro infatti non vi è la cacciata dell'invasore e nemmeno lo spirito patriottico tipico dei prodotti a stelle e strisce e il tutto non viene mai trattato come una home invasion - o in questo caso una hotel invasion. Per il personale del Taj l'hotel non è una patria da cui cacciare l'invasore, bensì un ambiente noto alla perfezione e di cui sfruttare al meglio la conoscenza per permettere agli ospiti di aver salva la vita. L'australiano Maras pone infatti l'indiana sacralità dell'ospite come linea guida lungo la quale seguire la vicenda, rendendo il film per certi versi più vicino al disaster movie in cui il sentimento a prevalere è la solidarietà, anche se si tratta più di un enunciato che di un vero e proprio sviluppo («Ricordatevi sempre che qui al Taj l'ospite è sacro.» afferma senza giri di parole il capocuoco).

La premessa però viene rispettata solo parzialmente perché a questa linea – su cui si articola la resistenza delle vittime – si aggiunge un'altra totalmente svincolata che segue un processo di umanizzazione degli attentatori. Se in principio infatti i terroristi sono visti come una macchina inarrestabile priva di ragione mentre le forze dell'ordine degli sprovveduti in preda al panico incapaci di mirare, un punto di svolta cambia la rotta di una caratterizzazione psicologica (nulla) che sembrava destinata a rimanere tale. Non una progressione ma un cambio repentino innescato dal crollo psicologico di uno degli estremisti islamici che telefona a casa per accertarsi che il suo sacrificio da martire di guerra santa non sia vano, bensì ricompensato, almeno sul piano terreno, da un pattuito pagamento alla famiglia. Da quel momento in poi i terroristi ricevono un trattamento di favore dalla macchina da presa di Maras che ne mostra ed enfatizza la crisi. Questo eccesso di onniscienza, o ostinazione a uno sguardo più ampio che dir si voglia, nel voler mostrare tutto finisce involontariamente per aderire, almeno parzialmente, con il punto di vista degli attentatori, contrapposti nello scontro a fuoco finale alle forze speciali indiane descritte come macchina inarrestabile priva di singole identità a causa delle maschere indossate, riservando invece ai carnefici primi piani sofferenti di peso pari a quello delle vittime. Il tentativo di rimandare la colpa agli ancora impuniti organizzatori e sgravandola dagli esecutori, le cui azioni vengono più giustificate che motivate, è un passaggio quantomeno discutibile se non condannabile.