TRAMA
La storia di Anna Karenina, il suo amore per il conte Vronskij, la sua fine tragica.
RECENSIONI
Dopo Hanna, prova brillante dell’esistenza di un Wright di servizio, concreto e funzionale, Anna Karenina può essere letto come un trattato teorico (a suo modo estremo) sul cinema di adattamento secondo il Nostro: si parta pure da una base letteraria alta quanto si vuole, ciò che rileva è come si decide di tradurla in immagini. Per la dimostrazione Wright non usa mezze misure e mette le mani su uno dei massimi capolavori della letteratura, già più volte portato sullo schermo, quasi a cercare il confronto con le versioni passate e a sancirne la sostanziale differenza, a proclamare, una volta per tutte, che l’originalità alberga nello stile. Il regista quindi non può lasciarsi intimorire dal valore del testo, dalla conoscenza pressoché universale di cui è oggetto e dall’aura sacrale che lo circonda. A suggello del suo teorema, all’adattamento chiama Tom Stoppard, oggi il massimo drammaturgo inglese vivente, che, anziché cercare la resa sfumata dei caratteri, li svuota della loro complessità - assecondando in pieno il gioco di Wright, tutto ripiegato sulla resa cinematografica - e assembla un dispositivo dialogale più simile, per scarnezza e chiarezza delle situazioni, a un libretto d’opera che a una sceneggiatura (che altri avrebbero infarcito dello small talk del romanzo, di quel ciarlare salottiero ed elegante che al regista, ancora una volta, non interessa riprodurre), sollecitando Stoppard soprattutto alla strutturazione delle sequenze sceniche e alla successione dei quadri teatrali.
Già all’epoca di Espiazione, del resto, il regista aveva chiesto allo sceneggiatore Christopher Hampton di riscrivere completamente l’adattamento, inizialmente destinato alla regia di Richard Eyre, per sfrondarlo della pastoia letteraria e asservirlo alle sue istanze immaginifiche.
Il risultato è un film che del capolavoro tolstojano ha l’impianto narrativo, ma che non si lascia fuorviare dalla sua cospicua messe di temi e dalla loro complessità, perché rimane fermo sull’intento della traduzione in superba immagine cinematografica dell’intreccio, scansando come la peste la pedissequa illustrazione o il dramma d’epoca in costume: bandire qualsiasi esplicitazione delle problematiche sviscerate nel romanzo significa allora fare di Anna Karenina un pretesto narrativo per mettere in moto un fascinoso congegno scenico in cui i personaggi sono mere funzioni, deprivate scientemente del loro spessore e della loro sostanza, per diventare figure, impetuose e appassionate, i cui moti interiori non sono demandati alle parole, ma sono rappresentati dai movimenti di macchina, dal tourbillon visonario che si ingaggia sulla scena.
Il film è concepito come sintesi e somma di scene-coreografie, curate dall’adorato Sibi Larbi Cherkaoui, tra i massimi coreografi contemporanei, che lascia nel film, in bella evidenza, la sua traccia inconfondibile: il suo lavoro non si limita alle scene di danza, ma riguarda tutta l’orchestrazione ritmica dei movimenti di scena - si veda il sublime gioco cinetico nell’incontro di Anna col conte nel salotto in cui si tiene il ballo - in armonia con lo score di Marianelli. Il movimento scenico si sviluppa in un ambiente artificiale, un teatro che si allarga e che include interno ed esterno. In esso i personaggi, cristallizzati in maschere (Anna Karenina, una diva splendidamente vestita - un po’ diabolica, un po’ debole - ma anche coraggiosa -, tormentata e civettuola; il conte Vronskij, una rockstar new romantic, bello, innamorato e poco altro; il marito di lei, indurito in un'espressione dolente e orbato dei suoi dilemmi) delegano tutta l’elaborazione del loro percorso a una gestualità estremizzata e a una serie continua di scene madri. Tutto è infatti calcolatamente enfatico in questo musical senza canzoni, trionfo di una finzione che passa attraverso set a scatole cinesi e scenografie semoventi, sciabolate da carrellate laterali e dolly maestosi, piani sequenza e vorticose inquadrature a piombo che non nascondono, ma esaltano piuttosto i trucchi scenografici, i cambi di ambiente e di tempo che fluidamente scorrono, in una lotta strenua tra teatro e letteratura in cui Wright, da grande regista quale è, fa uscire vincitore indiscusso il suo cinema.
È un allestimento artificioso e barocco - si dirà kitsch, facendo venire a molti il capogiro - in cui a brillare rimane il tema della sfida alla società poiché - vertigine! - è essa il teatro nel quale i protagonisti sono chiamati a recitare, ribalta impietosa che mette al bando la coppia di amanti che ha osato sfidarne convenienze e convenzioni, buttando a mare copione e ruoli stabiliti. Parallalelamente si muove la vicenda di Levin (che rappresenta in un certo senso, lo stesso Tolstoj), che, pur essendo parte sostanziosa del romanzo (la più sostanziosa, ad esser precisi) è quasi sempre marginalizzata (se non espunta) negli adattamenti cinematografici [1]. Stoppard invece le dà rilievo inedito convogliando su quel livello narrativo la gestione dell'aspetto storico, politico e sociale, mai problematizzato (se ne guarda bene), ma anch'esso ridotto a motivo di pura contestualizzazione ambientale.
Tutto il romanzo dunque è tradotto in una chiave altamente spettacolare, ogni scena essendo il frutto di uno studio approfondito che sintetizza dialogo, movimento e musica, con sequenze di grandissimo impatto: il ballo, ovviamente; la corsa dei cavalli con la caduta del conte (Tolstoj, già avantissimo, nel romanzo la rappresenta due volte, prima dal punto di vista di Vronskij e poi da quello del pubblico - Anna, e il marito che ne sonda la reazione -); la prima e ultima apparizione della Karenina in stazione (con l’incrocio, nella prima, dell’uomo che verrà schiacciato sui binari, presagica macchia di morte che sembra presa di peso da Mulholland Drive). E quasi come tributo alla delicatezza del tratto tolstojano la toccante scena della seconda dichiarazione di Levin fatta con i dadi di legno, momento-parentesi restituito in tutta la sua forza poetica.
Magnificenza dispensata a piene mani: l’occhio ne è invaso e, se affamato, se ne pasce; se saturo, la rigetta. Il dramma evapora, residuandone la trasparente patina.
Si amerà, vedendosi in esso l'apogeo della dottrina Wright. Si odierà, considerandolo ubriacatura autorialistica di un regista altrimenti efficace. Lascerà indifferenti tutti gli altri.
[1] In Anna Karenina le storie narrate sono fondamentalmente due (quella di Anna e quella di Levin) con un terzo filone narrativo (quello di Oblonskij e Dolly) a fare da trait d’union. L’incontro tra Levin e Anna avviene verso la fine del romanzo. Nella discutibile versione di Bernard Rose con Sophie Marceau, ad esempio, Levin è la voce narrante e la sua linea narrativa diventa un pretesto che giustifica il suo osservare/raccontare.