Drammatico

ANGELS WEAR WHITE

Titolo OriginaleJia Nian Hua
NazioneCina/Francia
Anno Produzione2017
Durata107'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche

TRAMA

In una cittadina di mare, due studentesse vengono assalite in un motel da un uomo di mezza età. Mia, un’adolescente che quella notte lavorava alla reception, è l’unica testimone. Per paura di perdere il lavoro, non dice nulla. Nel frattempo la dodicenne Wen, una delle vittime, scopre che i suoi guai sono appena cominciati. Intrappolate in un mondo che non dà loro scampo, Mia e Wen dovranno trovare da sole una via d’uscita.

RECENSIONI

Ci sono registi che mettono in discussione la Cina di oggi rappresentandola. Vivian Qu si iscrive a questo cinema, che culmina in Jia Zhangke e passa per molti altri, per esempio il Cai Shangjun di People Mountain People Sea (dimenticato Leone d’argento 2011): lì, dopo un omicidio consumato nella provincia del Guizhou, il protagonista prende atto del vuoto dell’autorità e si mette da solo sulle tracce dell’assassino del fratello. Calandosi, letteralmente, nelle miniere delle regione. Come Cai, anche Vivian Qu inscena una vicenda particolare e per interposta piccola storia si incide sulla pelle dello Stato. Dopo l’esordio di Trap Street, con cui condivide il ruolo delle registrazioni a ribadire il dato di una comunità sorvegliata (lì un personaggio lavora nei sistemi satellitari, qui una telecamera riprende l’ingresso nel motel), in Angels Wear White (Jia Nian Hua) la regista allestisce un fatto interpretabile e manipolabile: due studentesse minorenni vengono abusate da un uomo benestante, ma occorre dimostrare l’accusa. La testimone chiave, la giovane receptionist Mia, sceglie di non parlare sia perché vittima del ricatto lavorativo, sia perché lo stato del Paese induce alla comodità della reticenza. Una delle vittime, la piccola Wen, viene aggredita dalla madre che invece del crimine preferisce additare l’aspetto della figlia. Ed è pronta a farsi comprare. È un racconto di significato evidente, quello di Vivian Qu, teso a disegnare una condizione complessiva che tutto investe: la violenza sulle donne si mescola allo sfruttamento del lavoro, il dominio dei ricchi sui poveri alla società che lo permette. La regista è abile a portare avanti tanto la detection quanto la metafora, col tentativo di incriminare il colpevole che procede insieme alla costruzione dell’affresco politico: doppio binario tessuto fino a incrociarsi bruscamente nella macrosequenza dell’esame medico delle bambine, quando l’attesa del risultato offre un climax che sfocia nel referto truccato, svelando definitivamente la corruzione di Stato. Simbolo solare della paralisi è la statua di Marilyn Monroe, a cui le figure tornano sempre nel tentativo di elevarsi e “sognare”, ma che verrà smontata come crepuscolo delle illusioni. Non c’è niente da sperare, in questa Cina, si può solo (forse) scappare vestiti di bianco come Mia nel finale. Angels Wear White è prova di cinema leggibile, che si ripete variando ma di fatto uguale a se stesso: suona ormai prevedibile il suo approdo sociale, la critica sfacciata, ma a tratti arriva ancora al risultato. E così Vivian Qu mostra un video schiacciante che viene svuotato della propria oggettività mediante l’esercizio del potere: davanti alla dittatura del denaro anche la scienza mente, perfino la verità di una registrazione può essere alterata.