TRAMA
In Belgio, ai giorni nostri, il destino del giovane Ahmed, 13 anni, combattuto tra gli ideali di purezza professati dal suo imam e i richiami della vita.
RECENSIONI
In medias res. Il film inizia con Ahmed che corre su per una rampa di scale, con la camera che lo pedina (non ci potrebbe essere incipit più dardenniano). Conclude frettolosamente la lezione di algebra, raccoglie le sue cose e si precipita fuori dal doposcuola. Ahmed si rifiuta di stringere la mano all’insegnante donna, si rifiuta di imparare l’arabo moderno perché deviante rispetto alla purezza della lingua coranica. Corre dall’imam del quartiere che vagheggia di una jihad che sta per compiersi. Ahmed fa le abluzioni, prega cinque volte al giorno, niente è più importante della celebrazione di Allah, del comportarsi da perfetto musulmano. Ahmed è già un fondamentalista, nel suo corpo di adolescente goffo, lo sguardo perso. Il film inizia e Ahmed lo è già: non c’è spiegazione, illustrazione a tentativi di come una giovane mente possa essere corrotta, analisi dei fattori socio-culturali che influiscono sul traviamento. Le ipotesi sono tutte lì, tutte valide, nessuna sufficiente. Una comunità di minoranza in un paese occidentale che teme di vedere scomparire la propria cultura, la mancanza di un padre, una madre con problemi di alcolismo. Ma Ahmed ha anche un fratello e una sorella, il primo credente senza troppa convinzione, la seconda completamente in linea con la società occidentale in cui vive. Evidentemente gli elementi di influenza non hanno la stesa presa su tutti i soggetti. E dunque sta qui la prima importante intuizione di Jean-Pierre e Luc Dardenne: davanti a fenomeni che resistono la semplificazione in semplicismi di causa-effetto, i registi ci pongono di fronte al fatto compiuto. Fedeli alla loro idea di cinema portata avanti in maniera testarda e orgogliosa, dopo aver indagato le inquietudini etiche della società belga, centro e periferia dell’Europa (da La promessa a L’enfant, da Il figlio a Due giorni, una notte) e dopo aver colto il passaggio epocale segnato dall’arrivo di nuovi marginali, gli immigrati, e le questioni morali di cui si fanno portatori (Il matrimonio di Lorna, La ragazza senza nome), ne L’età giovane i fratelli Dardenne affrontano un tema la cui urgenza reclamava un posto nel loro cinema. Lo fanno con grande onestà intellettuale, prendendo consapevolezza del loro punto di accesso alle dinamiche della storia – esterno – e rifiutandosi di semplificare la questione in schemini deterministici. L’età giovane non è quindi l’analisi sfaccettata delle cause, caratteristiche e effetti del fondamentalismo islamico che prende piede nei sobborghi d’Europa, ma è piuttosto il ritratto di un processo ignoto che ci appare immobile e largamente imperscrutabile.
Mentre il titolo italiano tenta una sorta di universalizzazione della faccenda (a metà fra L’età inquieta di Bruno Dumont e La rabbia giovane di Terrence Malick), il titolo originale, Le jeune Ahmed, fissa l’individuo, circoscrive il protagonista come mondo particolare di riferimento. Rimane in entrambi il riferimento alla gioventù, la grande età dei cambiamenti. Ma Ahmed non cambia. È già cambiato in un tempo precedente fuori dal film e dallo schermo, ma ora, lungo (quasi) tutti i 90 minuti di durata, Ahmed rimane uguale, la sua mente e le sue intenzioni cementificate in un unico credo, in un unico obiettivo. Eppure il mondo attorno a lui esiste e reagisce. Non solo gli scontri in famiglia: dopo lo scioccante tentativo di uccidere un’insegnante ritenuta apostata e blasfema, il ragazzo viene inserito in un centro di recupero, al vaglio di psicologi e assistenti sociali che si adoperano per estirpare il fondamentalismo dalla sua mente, per fargli prendere consapevolezza della violenza che ha generato e quella psicologica che ha subito. Viene assegnato a lavori costruttivi in una fattoria, diventa oggetto delle attenzioni di una ragazza che gli regala il primo bacio, evento vissuto nel turbamento religioso più totale. Nulla di tutto questo basta ad instillare un dubbio, una scintilla di cambiamento. La fissità dello sguardo registico sull’immobilità di Ahmed genera un processo di mancata immedesimazione con il personaggio, un vuoto di empatia in cui è allo spettatore che viene richiesto tutto il lavoro di interpretazione, posto davanti a dati che sembrano però rifuggirne ogni tentativo. I Dardenne operano un sabotaggio sottile del loro stile di asciutto realismo, un cinema di prossimità che, con la vicinanza ai corpi e l’immersione nel contesto, genera un’aspettativa di svelamento – psicologico, emotivo – che qui viene invece puntualmente interrotto, tarpato, nascosto.
Liquidato con sufficienza in occasione del suo passaggio in concorso al Festival di Cannes, dove ha vinto fra i borbottii un contestato – ma non banale – premio per la miglior regia, il film è stato frettolosamente marchiato come opera minore. La colpa dei fratelli Dardenne è quella di continuare ad aderire con cocciutaggine agli stilemi di un cinema fuori moda, anteponendo un’intelligenza che non supplica empatia né si affida alla furberia dei cinici formalismi. Continua piuttosto il percorso di un’intera carriera votato al cesello stilistico, al perfezionamento di una forma di cinema di apparente semplicità e invece fatta di precise posizioni dello sguardo, secondo rubati al montaggio per restituire un’essenzialità foriera di una complessità feconda. Li riconosciamo nel finale – anche questo dibattuto, in alcuni casi sbeffeggiato – un finale tronco al pari di quello, indimenticabile, del loro Rosetta. Ma se in quel caso allo spettatore era stato dato tempo e modo di affiancarsi emotivamente alla protagonista, ne L’età giovane si ripete al contrario lo schema con cui il film si è aperto. Un epilogo che rimette in discussione tutto, tagliato volontariamente con l’accetta, una lama che squarciando di colpo il velo di distanza che ci ha separato fino a quel momento dal ragazzo apre una finestra inaspettata, commovente, su un turbolento ignoto: la debolezza di essere umani. Quella mano che Ahmed rifiutava di dare all’insegnante ora è lì tesa, aspetta di essere afferrata, anche da noi. Forse davanti alla paura della morte siamo tutti uguali?