Recensione, Thriller

A HISTORY OF VIOLENCE

Titolo OriginaleA History of Violence
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2005
Genere
Durata96'
Sceneggiatura
Trattodai fumetti di John Wagner e Vince Locke

TRAMA

Tom Stall è un buon padre di famiglia: la vita sua e dei suoi cari entra in una spirale di violenza quando uccide due rapinatori nella sua tavola calda, attirando l’attenzione di un gruppo di malviventi che gli attribuisce un’altra identità, quella di Joey Cusack.

RECENSIONI

La sceneggiatura di John Olson doveva pedissequamente trasporre l’albo illustrato di John-Dredd-Wagner e Vince Locke (un La Pistola Sepolta in noir/gangster-movie con vendetta): subentrato David Cronenberg, il progetto viene stravolto (purtroppo non del tutto) da banale Racconto di Violenza a Storia della Violenza. Quella che una volta messa in atto, non importa quanto legittima, ammorba chiunque. Quella che attrae (ogni esplosione di brutalità è qui seducente) e respinge (certi raccapriccianti dettagli). Quella che può essere anche gratuita. Quella che fa parte, si voglia o no, dell’esperienza umana: il prologo quasi straniato, dove opera l’espressione serafica di due spietati assassini, è mostrato con un carrello laterale in piano sequenza che si raccorda, in un moto a luogo, all’idillio (tanto perfetto e noioso da sembrare finto) della famiglia felice. Per il Prima e Dopo, le due sequenze erotiche sono emblematiche: nella prima, i coniugi giocano sulla propria identità fingendosi liceali. Nella seconda, la scoperta delle due identità, Inseparabili, chiama un sesso violento d’amore ed odio. C’è un Prima di menzogne e impossibile auto-controllo (il padre che dice alla figlia che i mostri non esistono; il figlio che evita lo scontro con il bullo di scuola), poi i mostri si incontrano: il bullo di scuola che, in un sottile dettaglio, incrocia lo sguardo dell’assassino e pare riconoscere/si; il sornione, orbo Ed Harris; il personaggio di William Hurt, buffo/minaccioso seppur da fumetto, come tutta la dinamica violenta che lo riguarda. Fra loro tutti, Joey Cusack, l’alter-ego, La Mosca, il carattere di una follia che Cronenberg, purtroppo, da Spider, non ha più desiderio di sondare dall’interno, in soggettiva visionaria. Non più incubi nella mente, ma solo incubi della mente, attraverso racconti piani e “puliti”, rispetto ai suoi standard. Alla fine, nega pure che sia follia, sposando la tesi dell’eroe positivo senza troppe ambiguità. Anche la bellissima, in parte sospesa sequenza finale, dove il deviante attende un invito al desco familiare, è molto (ri)conciliante.

Era dai tempi di Crash che Cronenberg non ci offriva un film così rigoroso: immagini asciutte, architettura solida; la rappresentazione, zeppa di segni, di una realtà codificata attraverso l’uso della fiction (la stessa, nuova, esistenza – eXiztenZ? - del protagonista si fonda su una finzione: il sogno americano). La violenza ivi rappresentata «non è coreografata» (ipse dixit) ma è scabra, aspra, disturbante, reale; è, soprattutto, un malessere strisciante che si annuncia (i mostri del sogno della bambina: una minaccia in germe) e che, giunto in casa, dilaga epidemico (il figlio che picchia il compagno e ammazza il nemico trova in sé l’energia di un male atavico, la moglie che schiaffeggia il marito, l’amplesso come una lotta mostruosa), è un morbo astratto ma contagioso che contamina un microcosmo apparentemente sterile che solo la scena finale sembra ricomporre (il gesto con cui la figlioletta mette il piatto in tavola restaura, tra mille perplessità – poiché nulla potrà più essere come prima -, il devastato quadro iniziale). Ed è molto interessante (più di quanto lo sarebbe stato l’ennesimo, programmatico progetto originale) il modo in cui Cronenberg piega la materia fumettistica di partenza, di un film che è un continuo procedere verso non si sa mai cosa (è un western? E’ un thriller? È un film psicologico? Una favola malata?), alla sua poetica: la malattia che corrompe l’ambiente e le persone (i segni della violenza sulla schiena di Edie), la mutazione (anche se ad essere mutante, in questo caso, non è il corpo del personaggio ma la sua identità, un processo interiore che coinvolge la stessa struttura dell’opera – il lungo, notturno viaggio in macchina di Tom conduce a un altro film -), le realtà multiple e le personalità scisse, l’umorismo nichilista.
Si stampano nel cervello il piano sequenza iniziale (un lynchiano ingresso nel malefico strange world), superlativo per sospensione, tempi, tensione e che sfocia nell’ordinary world di Tom (la chirurgica direzione della fotografia è del fedele Peter Sushitzky); le scelte attoriali (tutto il cast, nessuno escluso, e un redivivo William Hurt, gigione da applauso); le gravi, strategiche musiche di Howard Shore.
Un colpo secco che ci ha stesi.

Questo è stato un progetto non nato da me, sono stato chiamato in una fase successiva, a pre-produzione avviata, e ho accettato solo dopo aver letto la sceneggiatura di Josh Olson. Che era bellissima, sostanzialmente fedele al testo di Wagner e che io invece mi sono divertito a terremotare qua e là.

Leggere queste dichiarazioni di Cronenberg prima e dopo il film fa un effetto davvero strano. Se prima della visione possono infatti sembrare abbastanza innocenti e ragionevolmente attendibili, a visione avvenuta cambiano radicalmente di segno, lasciando emergere una componente sarcastica suscettibile di capovolgerne completamente il senso. Già, perché se Cronenberg si è divertito a “terremotare” - verbo strepitoso, per inciso - qua e là la “bellissima” sceneggiatura di Josh Olson, l’evento sismico non pare aver causato gravi danni, non avendo intaccato più di tanto una struttura narrativa di pedestre linearità (sull’intero racconto campeggia l’insegna post hoc ergo propter hoc) e una caratterizzazione dei personaggi alquanto grossolana (il vilain nerovestito, occhialuto e sfregiato, il poliziotto protettivo quanto imbelle, il fratello incorreggibile, mefistofelico e smargiasso, solo per citarne alcuni).
Esattamente a metà del film, una sequenza – quella della carneficina nel giardino della famiglia Stoll – ci dice ciò che A History of Violence vorrebbe essere: un thriller mentale, un leggero incubo tragico, una ballata macabra nel cuore della serenità pacificata. Ma la sceneggiatura è così rozza, didascalica e unidimensionale da impedire alla materia filmica di sviluppare significati immateriali, psichici, condannandola ad un continuo gioco di sponda tra grevi sottolineature (il raccordo tra il colpo di pistola e l’intollerabile grido della piccola Sarah), pletorici simbolismi (la riparazione del potente pick-up in corrispondenza del riaffiorare di Joy: sullo sfondo un cavallo immobile nel recinto!) e stridenti parallelismi (l’esplosione di violenza nel padre provoca, reazione a catena, un’analoga detonazione nel figlio). Nella speranza che dall’accumulo scaturisca una forma simbolica, dalla giustapposizione fiorisca un’organizzazione semantica di secondo grado.
E allora perché non scorgere nel film, avventurosamente certo, una tensione tra la personalità del cineasta canadese e il materiale a sua disposizione? Perché non leggere un conflitto estetico tra la poetica di Cronenberg e il progetto al quale egli ha aderito a pre-produzione avviata? Prima del film, a fianco del film scaturisce un altro testo, discreto e sfacciato al tempo stesso. Un testo delicatamente violento. Il piano sequenza iniziale, vero e proprio film nel film, è emblematico: 3’ e 45” di cinema sospeso, tutto giocato sulla sottrazione, i silenzi, il non detto, saturo di un malessere torrido che ti si appiccica addosso. Il passaggio dalla prima alla seconda sequenza segnala il ritorno all’ordine della logica narrativa, dei raccordi visivi “regolari”: frattura stilistica sottolineata dall’urlo di cui sopra. Ma è nel corso dell’intero film che Cronenberg, spalleggiato da quel prodigioso talento visivo che va sotto il nome di Peter Suschitzky, ostacola la rigida convenzionalità del racconto rendendo doloroso ogni taglio di montaggio, immergendo la diegesi in una luce densa e riluttante ad ogni stacco, irrorando ogni inquadratura delle note dilatate di Howard Shore (il cui commento musicale è tuttavia tanto invasivo da ingenerare fonofobia). L’epilogo porta infine alle estreme conseguenze la tensione estetica: qui si scontrano frontalmente le due istanze stilistiche. Annullandosi.
A History of Violence è quella, aurorale e inevitabile, del farsi del film.

Quant’è vasta la zona d’ombra della personalità di ciascuno di noi? Assai, se diamo retta all’ultima nerissima favola di David Cronenberg. E quanta resistenza offre, all’emergere di questa natura ctonia, la nostra patina di civiltà e buone maniere, sentimenti e ideali? Ben poca, anche se di tale patina torniamo a vestirci quando vien comodo. Piuttosto che l’approfondimento vertiginoso di Spider (direzione qui suggerita, ma lasciata subito cadere, dalla duplice personalità del protagonista), il regista segue uno svolgimento orizzontale e illustrativo (simile a quello adottato in eXistenZ); geografico, potremmo dire, attraverso i luoghi della violenza intesa come fattore ineliminabile, anche se rimosso o negato, delle relazioni umane; nella famiglia amorevole e perfetta immersa nel sogno americano, solo la bambina – non ancora completamente educata – ammette, attraverso l’incubo che angoscia le sue notti, l’esistenza di tale fattore oscuro; il fratello ritiene di essere perfettamente civilizzato e dunque lo ripudia in modo ideologico di fronte alle soperchierie dei compagni, mentre i genitori si fanno uno scudo della sublimazione che la società ne offre attraverso gli strumenti della legalità. Una minaccia sfuggente e temibile fungerà da catalizzatore, rivelando ciascuno di loro per qualcun altro con meccanica – e discutibile, seppure efficace – consequenzialità: un’opera stranamente unidimensionale e dimostrativa nel rappresentare il contraddittorio volto dell’uomo. Per questo, i momenti migliori del film sono il virtuosistico piano sequenza iniziale, esempio di espressività puramente grafica; l’incontro sessuale dei protagonisti finalmente libero da moine e infingimenti, che si manifesta quale forma erotica della violenza; e la scena conclusiva, formidabile nel recuperare tutta l’ambiguità del Cronenberg maggiore e la sensuale pericolosità del suo sguardo perturbante.

Cronenberg ha smesso di (e)rompere e finalmente si limita ad affiorare. Meglio così. Abile nel costruire atmosfere tese quanto gelide, si lynchia appena un po’ e si affida a una sceneggiatura non sua, che alterna ridondanti e fastidiosi didascalisimi a intuizioni profonde e barlumi di Verità. A mixed bag, direbbe a ragione qualche anglosassone. Fatto sta che preferiamo mille volte questo Cronenberg, nella sua “svolta pop” obliqua e contaminata, a quello sfrenato di eXistenZ o del programmaticamente maturo Spider, roba da liceali che masticano nuova carne senza scongelarla e passano i sabato sera a (ri)guardarsi Stereo e Crimes of the future. Bravissimi ragazzi coi quali non abbiamo più nulla da spartire.