Drammatico

A DANGEROUS METHOD

NazioneCanada/ Germania/ Gran Bretagna/ Svizzera
Anno Produzione2011
Durata99'
Sceneggiatura
Tratto dadalla pièce di Christopher Hampton The Talking Cure
Scenografia

TRAMA

Le relazioni tra Carl Jung, psichiatra alle prime armi, il suo maestro Sigmund Freud e Sabina Spielrein, la giovane paziente che si frappone tra i due.

RECENSIONI

Cronenberg ama scivolare sulla superficie delle cose, lasciando solo intuire quello che cela e non sorprende che, trattando del rapporto che legava Freud (Mortensen), Jung (Fessbender) e Spielrein (Knightley), preferisca delegare tutto alla parola, al  duro guscio verbale che racchiude un nucleo ardente intuibile, ma giammai mostrato.
Se il metodo pericoloso è quello della terapia verbale freudiana, allora anche la pericolosità del legame che legò Jung alla Spielrein, e che di riflesso pervenne a Freud, viene resa negli stessi termini: attraverso il profluvio dei discorsi tra i protagonisti, le loro epistole, il loro giocare di sponda con tesi e controtesi. Gli stessi titoli iniziali ce lo dicono chiaramente: la macchina da presa vaga tra i caratteri vergati a mano sui fogli, segue le volute di inchiostro, le lettere impresse, a indicare che l’essenza del film è proprio lì, nella parola, pericolosa per quel che significa, che allude, che nasconde, che indica: leggere tra le righe è compito dello spettatore, rimuovere lo strato spalmato dall’autore, per giungere al punctum dolens, è il termine di un viaggio che il pubblico deve affrontare da solo.

Gli incontri tra Spielrein e Jung (medico e paziente), tra Freud e Jung (mentore e pupillo), dissipata la cortina di fumo verbale, si rivelano momenti epocali: Cronenberg si sofferma sull’attrazione immediatamente verbalizzata tra Sabina e Carl, la moglie di lui a fare da terza incomoda (coinvolta, sotto mentite spoglie, nella prova dei tempi di reazione - che è tutta un sottinteso - e disposta come poche a non sapere); sull’indagine del rapporto (masochistico) di Sabina col padre, rispecchiantesi in quello del genitore spirituale/ amante carnale (lui, Jung, che la fustiga): l’umiliazione come deriva orgasmica, l’oscenità sentita; lo stesso vale per l’incontro tra Jung e Freud: il regista mostra una notte di parole candide e incessanti, tra un padre (ancora…) e un figlio putativi; più avanti: Jung non osa pensare quello che Gross (Cassel) suggerisce e dice, salvo poi farlo (non reprimere nulla, ché al momento giusto giudicherà sacrosanto l’arrendersi, il fermarsi a bere all’oasi). Parole parole parole si dirà, ma c’è una rivoluzione in atto sotto la loquacità ironica che sostanzia tutto quel discutere, argomentare, teorizzare: è l’alba della spirale perversa della psicanalisi, bellezza, in cui ogni umano sentire – sogni e segni da interpretare - verrà a confluire e dalla quale mai più si uscirà; è l’inizio del trionfo del metodo pericoloso - lo ricorda il titolo (che, significativamente, riprende quello del saggio di John Kerr A most dangerous method preferendolo a The talking cure, quello della pièce di Christopher Hampton, anche autore dell’adattamento, che a quel testo si ispirò) - che è quel rutilante parlare che ascoltiamo, appunto, il mantra del film, ciò che ci fa astrarre dal punto: il bisturi che penetra nella carne viva dell’inconscio malato.
Le parole tappezzano il film: quelle di Jung, che cura la Spielrein, della Spielrein che si rivolge a Freud, di Freud che riconduce tutto al sesso, che è ossessionato dal sesso, forse perché non ne fa (e si sottintende: avrebbe bisogno di uno psicanalista…): cerchi concentrici e vorticanti in cui i teorici sono pronti a dare il proprio contributo perché malati loro per primi, ché tutto sperimentano di persona, compreso il transfert, il controtransfert, l’illecitissimo rapporto erotico medico-paziente - Carl e Sabina avviluppati in una barca-utero che è tutto un programma (terapeutico) -.

È una massa di temi che si intreccia, che prolifera su un piano lucente, mai intorbidito da un’ombra, pieno di chiarore, glaciale, chirurgico, cronenberghiano (sì). Sembra, quello messo in scena dal canadese, un masturbarsi discorsivo in cui l’emozione viene bandita dal formalismo estremo, dalla puntigliosa ricostruzione d'epoca e d'ambiente; eppure negli incontri rappresentati, in quegli scambi di idee tra soggetti dubbiosi o convintissimi, frustrati e tormentatissimi, pieni di rancori e fisime (quindi così vicini alla vita, così profondamente coscienti dei suoi problemi) cova il virus del Cambiamento, la Trasformazione, il Processo Mutante Irreversibile: niente al mondo sarà più lo stesso, un morbo tenace, la Peste della psicanalisi, infetterà ben più di un’epoca e di un continente.
Cronenberg - e non è la prima volta, ché tutto quest’ultimo scorcio di carriera lo sta a testimoniare - gioca  a mimetizzare (reprimere?) sotto un’apparenza rigorosa fino alla rigidità, le questioni centrali (la gestazione di una grande teoria, il parto di un’idea rivoluzionaria), sembrando concentrarsi sui tabù, i traumi, le fissazioni di tre signori (attori superbi, la Knightley in testa), costretti in una cornice e sorpresi a porre in essere discutibili comportamenti e a perpetrare tremende piccolezze: le differenti posizioni sociali che si convertono in infantili ripicche; Freud che disprezza la deriva misticista di Jung; Jung che non ha più remore nell’esprimere l’ostilità verso il padre Sigmund, pronto a bruciarne il totem, dopo averlo adorato; Sigmund che si spazientisce, Sabina che tira dritta per la sua strada, Carl che si concede un’altra amante paziente… E ancora parole parole parole per il teatro orale dell’irrinunciabile, faticosa e sviante rappresentazione di sé.
Lo si è detto film patinato e mai espressione fu più involontariamente felice: che quella patina è dura e ricopre il nocciolo incandescente.
C’è un demone che freme, sotto.

L’algido scienziato figlio dell’Ombra è tornato e approccia due colossi della psicanalisi, imbrigliandoli nelle loro stesse teorie. Pur affidandosi a un testo altrui (“The talking cure” del drammaturgo Christopher Hampton, incentrato maggiormente sulla figura di Jung) con passaggi scontati (il rimorso finale), soprattutto nella parte sentimentale fra Jung e Sabina Spielrein (sondata anche da Roberto Faenza in Prendimi l'Anima e da Carlo Lizzani in Cattiva), Cronenberg sa come farlo navigare in altri lidi, più intriganti e forieri di riflessioni. Il suo cinema migliore resta quello che racconta, clinicamente, trame folli ma, dopo due pellicole (quasi) di genere in forma di studi sulla violenza, è gradito questo rimpatrio nei territori di Inseparabili (passando per Spider, dove aleggiava potente il fantasma di Freud), parimenti affidato alla violenza della parola e dove gli scienziati protagonisti, anziché curare, erano ugualmente fagocitati dalla dissennatezza. L’orrore, da tempo, il regista canadese lo rinviene nella mente, senza più sentire il bisogno di mostrarne le carnali estensioni allegoriche: in questa fase evolutiva della sua poetica, poi, intuisce come terrificante anche il male inferto attraverso i sentimenti, gli affetti. Una maturità che è diventata anche messinscena apparentemente invisibile eppure magistrale: il testo di Hampton, abbastanza teatrale, diventa cinematografico anche attraverso il modo in cui sono disposte in “senso” simbolico le figure nello spazio o sfruttando location sottilmente allegoriche (splendida quella con il ponte e le sinuose scalinate percorse da Jung e la paziente) o volti attoriali da manipolare in ogni espressione (vedere Keira Knightley, all’inizio, negli eccessi di follia). Il lavoro con gli interpreti è sopraffino, restano impressi i personaggi creati, i legami, le emozioni taciute, i dolori espressi e le imperfezioni umane manifeste. Le punte di sublime speculazione cerebrale di Hampton nel “duello” fra teorie scientifiche (che ricorda quello di La Fossa dei Disperati), sono potenziate da una messinscena che le ribalta addosso agli interlocutori scoprendoli come pazienti, ferendoli con le parole (the talking cure di Jung), per curarli/curarci.