TRAMA
RECENSIONI
Non mi interessa minimamente sapere se A Beautiful Day - You Were Never Really Here vi è piaciuto, piace o piacerà. Così come, del resto, non mi interessa dire se questo film mi è piaciuto e quanto. Trovo molto meno futile e insensato, invece, porre il quarto lungometraggio di Lynne Ramsay in una prospettiva che tenga conto dei suoi precedenti film e che, alla luce di questi, favorisca una piccola riflessione sulla poetica della regista scozzese.
Il cinema di Lynne Ramsay è un cinema del condizionamento, seppure possa sembrare davvero tutta un'altra cosa. Fin dai suoi primi corti, passando per Ratcatcher (1999) e approdando a Morvern Callar (2002), si tratta di un cinema che imprigiona i personaggi in un contesto soffocante e inesorabile. La pressione/oppressione ambientale è particolarmente forte in Ratcatcher: una Glasgow cenciosa e traboccante di rifiuti scrive il destino del piccolo James Gillespie con un'evidenza melmosa e infettante. Non c'è via di scampo da questo immondezzaio purgatoriale, se non in un escapismo post mortem: James immagina il trasloco della famiglia nei nuovi e più confortevoli immobili solo mentre sprofonda nelle stesse acque stagnanti del canale in cui ha provocato l'accidentale annegamento di un compagno di giochi. Ed è lo stesso contesto pestilenziale ad aver posto le premesse concrete dell'annegamento. Di fatto, è Lynne Ramsay che, per interposta fantasticheria, offre al piccolo protagonista un'impossibile via di fuga in punto di morte. Per quanto stringente e palese, il modello della Mouchette bressoniana viene superato da questa rêverie che, in una certa misura, squarcia idealmente l'esiziale determinismo ambientale. Resta il fatto che la realtà messa in scena non offre ipotesi di salvezza, se non in questo epilogo immaginario.
Anche Morvern Callar riflette sostanzialmente questa dinamica condizionante, benché con alcune alterazioni piuttosto importanti. L'eroina eponima interpretata da Samantha Morton si trova incastrata in un'esistenza miserabile che viene devastata, in apertura di film, da un evento fortemente traumatico: il suicidio del fidanzato. L'intero lungometraggio non farà che mettere in scena il suo tentativo di cancellare questo trauma (persino fisicamente con lo smembramento/occultamento del cadavere) e ricostruirsi una nuova vita. L'appropriazione indebita del romanzo inedito del fidanzato, la vacanza in Spagna con l'amica Lanna (Kathleen McDermott) e la decisione finale di continuare a viaggiare verso mete imprecisate sottolineano per contrasto proprio l'impossibilità della rimozione. Morvern continuerà a portarsi dentro le cicatrici del trauma e il suo nomadismo solitario non riuscirà a smarcarsi dall'orizzonte asfittico di un escapismo immaginario del tutto analogo a quello del piccolo James di Ratcatcher. Morvern è prigioniera di un sogno di fuga tanto condizionante e inesorabile quanto il contesto ambientale (la grigia cittadina scozzese in cui vive, il deprimente lavoro nel supermercato, le amicizie inaffidabili) che intende lasciarsi definitivamente alle spalle. Tentativo di evasione inane: le sue sbarre se le porta dentro.
A reclamare attenzione, tuttavia, è un dato apparentemente insignificante: lo spostamento all'indietro dell'evento traumatico nella posizione narrativa del film. Se in Ratcatcher l'evento tragico (ovviamente la morte accidentale dell'amichetto di James) si collocava all'interno del film e veniva mostrato chiaramente, in Morvern Callar l'inspiegabile suicidio del fidanzato inaugura letteralmente la narrazione e non viene rappresentato esplicitamente: le prime inquadrature raffigurano già Morvern che accarezza delicatamente le spalle del cadavere dell'amato. Che cosa ci dice questo arretramento dell'episodio tragico? Mi pare evidente che, da una parte, contribuisca a rendere sempre più ineluttabile l'alone condizionante del contesto e, dall'altra, tenda a spostare il fattore determinante/deterministico dalla situazione spaziale (Glasgow o la piccola città portuale scozzese) a quella temporale (dalla rappresentazione nel film alla rappresentazione post factum). Le caratteristiche di irreparabilità e immodificabilità di ciò che è successo, insomma, ne risultano sensibilmente potenziate: il dramma è già avvenuto, tocca fare i conti con un qui e ora irrimediabilmente guasto. Un qui e ora che sprigiona un dolce odore di morte.
Questa dialettica tra passato schiacciante e presente in cerca di un'impossibile rigenerazione raggiunge infine il culmine in ...e ora parliamo di Kevin (2011), il film senza dubbio più facile e convenzionale di Ramsay, nel quale la protagonista Eva Khatchadourian (Tilda Swinton) conduce un'esistenza semplicemente residuale. A lei non restano che le macerie di una tragedia (la carneficina all'arco del figlio Kevin) che l'ha non solo privata del marito e della figlia, ma anche e soprattutto della possibilità di vivere una vita che non si piazzi sotto l'insegna della redenzione. Ogni vessazione attuale è tollerata, se non addirittura giustificata, dall'imperdonabilità della tragedia avvenuta: il presente è umiliazione e afflizione, non c'è remissività che tenga. E quanto il passato rinchiuda ermeticamente e finisca per fagocitare il presente è la stessa struttura narrativa del film a dircelo, con la continua, martellante frequenza dei flashback che riducono la situazione attuale di Eva a un riflesso condizionato di (e da) ciò che è stato. Qui il rapporto tra i due piani temporali si ribalta: il presente della narrazione non è che il pretesto per mostrare una catastrofe che si colloca molto prima dell'inizio del film e che a sua volta sollecita salti all'indietro sempre più decisi. In ...e ora parliamo di Kevin è in definitiva lo stesso presente a svuotarsi di senso e di vita, a ridursi a esangue visita carceraria.
Ebbene, in A Beautiful Day - You Were Never Really Here il discorso sembrerebbe riprodursi senza sostanziali variazioni, col protagonista Joe (Joaquin Phoenix) costretto a camminare sui cocci di un vissuto funestato da violenze domestiche e professionali. Tormentato da un disturbo post-traumatico che lo aggredisce a più riprese, riportando a galla frammenti di soprusi familiari e abusi militari ai quali ha assistito o ai quali ha partecipato in modo imprecisato, Joe vive un presente segnato dalla necessità di riparare proprio quel passato intriso di ingiustizia e sopraffazione. Il martello usato dal padre per seminare il panico in casa quando Joe era bambino diventa ora lo strumento che, per contrappasso, egli utilizza per colpire e punire coloro che schiavizzano sessualmente delle ragazzine indifese. In nome delle violenze subite o di cui è stato testimone/partecipe, Joe è diventato un salvatore a contratto, totalmente dedito alla sua missione riparatoria e praticamente sprovvisto di una vita affettiva adulta (vive con l'anziana madre con la quale ha un rapporto ombelicale e la sua ultima relazione sentimentale risale a molti anni prima). Il passato, insomma, sembra determinare inesorabilmente il suo presente, comprendendo per forza di cose anche quella educazione alla violenza che Joe adesso sfrutta in chiave punitiva.
In realtà, You Were Never Really Here opera un profondo rivolgimento strutturale rispetto ai film precedenti. Il quarto lungometraggio di Ramsay arriva persino a capovolgere la fantasticheria in punto di morte di Ratcatcher, inscenando un prefinale tragico seccamente smentito dall’epilogo in favore di una nota di speranza: Nina Votto (Ekaterina Samsonov) sveglia Joe dal suo sonno suicidario e lo invita ad andarsene con lei ("Joe, wake up! Let’s go, it's a beautiful day", gli dice guardandolo negli occhi). Se in Ratcatcher lo spettrale suicidio del piccolo James si prolungava in una coda immaginaria fuori tempo massimo, in You Were Never Really Here è lo stesso suicidio a diventare una rêverie sconfessata dalla realtà messa in scena.
E, pur sembrando affine a quello dispiegato in ...e ora parliamo di Kevin, anche il meccanismo della memoria segue un andamento profondamente sbilanciato: se nella pellicola del 2011 il passato invadeva il presente con flashback sempre più corposi e leggibili finendo per spodestarlo, in A Beautiful Day (titolo che richiama l'ultima battuta del film) s'impone invece una memoria alveolare che infesta il presente con fugaci e stranianti squarci retrospettivi privi (o quasi) di continuità narrativa.
Se le azioni presenti di Joe si qualificano come riparazione dei traumi passati, risulta pressoché impossibile ricostruire la linearità di questi episodi: ne indoviniamo soltanto dei frammenti irrelati che disturbano la sua percezione fino al punto di tracimare dalla sfera mnemonica e irrompere fisicamente nel reale (la sequenza in cui egli vede la madre e il padre seduti sul divano nella villa del governatore Williams). Qui la memoria non è più un dispositivo di delucidazione retrospettiva, ma un meccanismo di interferenza psichica che genera disordine e sgomento e dal quale è necessario prendere le distanze per non soccombere (la sequenza del tentato suicidio nel lago). Per la prima volta, insomma, Ramsay offre un autentico spiraglio di futuro al protagonista, affiancandogli una figura terza (la piccola Nina) in cui possa riconoscersi (il conto dei secondi è il filo tangibile che li unisce) e che possa spezzare la sua dipendenza dal determinismo fatale scritto da ciò che è già avvenuto. Persino il titolo You Were Never Really Here allude a questa necessità di svincolarsi dalla tirannia asfissiante del passato. E il campo vuoto dei titoli di coda si riempie all'improvviso di un'ipotesi di esistenza finalmente libera dal condizionamento ambientale e temporale.
Premio per la miglior sceneggiatura (ex aequo con The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos) e per la migliore interpretazione maschile (Joaquin Phoenix) al 70° Festival di Cannes (2017).