
TRAMA
Sono passati quasi tre decenni da quando il virus della rabbia è fuoriuscito da un laboratorio di armi biologiche e ora, ancora in una quarantena forzata e brutale, alcuni sono riusciti a sopravvivere in mezzo agli infetti. Un gruppo di sopravvissuti vive su una piccola isola collegata alla terraferma da un’unica strada rialzata ed estremamente protetta. Quando uno di questi lascia l’isola per una missione diretta nel profondo della terraferma, scoprirà segreti, meraviglie e orrori che hanno mutato non solo gli infetti ma anche gli altri sopravvissuti.
RECENSIONI
28 giorni dopo è stato un film fondativo poiché, stringendo, ha riscritto, alle soglie del nuovo millennio (2002), in maniera credibile la mitologia dello zombie romeriano, da un lato ricalcandone il retroterra politico e – per certi versi – satirico, dall’altro mutandolo abbastanza da farne qualcosa di nuovo. Non più non-morto, ma, in un certo senso, non-vivo, versione “rabida” del sé. Non più lento, bensì centometrista (fondamentale il passaggio dall’idea originaria della flemmatica incombenza a quella contemporanea del subitaneo assalimento). Non più americano, ma significativamente inglese, isolano e isolato. 28 settimane dopo, diretto questa volta da Juan Carlos Fresnadillo (2007), è stato invece un film formativo. Oggi considerato “apocrifo”, marginale, ha invece più di un merito. Quello, anzitutto, di consolidare e in un certo senso sedimentare l’estetica che in quegli anni ci avrebbe, ironicamente, ammorbato. Inoltre, il film faceva qualcosa di non scontato per l’epoca: serializzava il primo (a questo punto) capitolo in modo non banale, amplificando un universo narrativo che sarebbe rimasto sopito per quasi due decenni. Compiva inoltre un piccolo miracolo memetico ante litteram: spingeva il pubblico a vagheggiare su un naturale proseguimento, che appunto avrebbe potuto essere 28 mesi dopo, 28 anni dopo, 28 decenni dopo, e così via in un divertente climax cronologico. Un semplice gioco, una trovata forse di guerrilla marketing, e che però, 23 anni dopo il primo film (non 28, cosa che può generare un certo fastidioso prurito ai soggetti ossessivo-compulsivi), trova il suo adempimento con un ritorno dietro la macchina da presa di Danny Boyle, accompagnato dal sodale Alex Garland alla scrittura, che proprio con il capitolo che aveva originato la saga e l’epidemia esordì come giovane, promettente sceneggiatore, pronto a divenire una delle penne più acuminate del panorama britannico.
Questo preambolo si dava come necessario per fornire un minimo di contesto rispetto a 28 anni dopo. Film la cui riuscita, invero, si annunciava come tutt’altro che scontata. Vuoi perché Danny Boyle è in fondo un auteur (o un author) riconosciuto ma anche sempre un po’ relegato alle “retrovie” della cinefilia (e spesso “ridotto” ai suoi film meno interessanti: Transpotting, 1996, e The Millionaire, 2008). Vuoi perché, nel venticinquennio in esame, il neo-zombie è (ri)nato, (ri)vissuto e anche, nel mentre, (ri)morto, e quindi non rappresenta più il cavallo vincente a tutti i costi. Vuoi ancora perché, in fondo, la (ormai) saga parla chiaramente a un pubblico che intanto è cresciuto, e non è ovvio che possa cogliere le nuove generazioni con la stessa sferzata di novità con cui all’epoca prese di soprassalto le (adesso) vecchie. Il rischio sarebbe stato quello di un’evitabile operazione nostalgia, oppure – ancora – dell’ennesimo requel disseminato di inneschi postmoderni(sti), o infine di un reboot fuori tempo massimo, ancorato a quei Teletubbies che vediamo in incipit e che rimandano a un tempo ormai dissolto. E invece, cari miei, 28 anni dopo è un film di totale godibilità, che non si limita a proseguire, ma che in un certo senso rilancia, anche esteticamente, un franchise che ora, nella sua (transitoria) fase di trilogia, ne esce rivivificato e pregno di rinnovata dignità.
Siamo, appunto, 28 anni dopo l’avvio dell’epidemia, la quale, nonostante i ripetuti sforzi, non ha mai smesso di imperversare. Il Regno Unito è in quarantena perenne. Il resto del mondo continua nelle sue normali attività – espresse anzitutto dall’isotopia (che attraversa tutti e tre i film) degli aerei di linea che attraversano indifferentemente i cieli inglesi mentre sotto di loro si consuma una grandguignolesca e infinita carneficina. I pochi superstiti devono, insomma, cavarsela da soli. Fra questi, una piccola comunità, stabilitasi in pianta stabile su un isolotto (una versione in miniatura dell’Isola di Man, che sta fra GB e Irlanda), e regredita a una sorta di medioevo, prova a vivacchiare come può, fra nuove ritualità e brevi spedizioni sulla terraferma per procacciarsi quelle poche risorse rimaste disponibili. Di qui parte la pericolosa avventura di Spike, giovane virgulto iniziato alla terraferma dal padre e ostinatamente deciso a portare la propria mamma, malata, dall’unico medico rimasto nei paraggi, interpretato da uno straordinario Ralph Fiennes.
Non propriamente horror, 28 anni dopo opta dunque per un’ibridazione di generi (dal viaggio d’avventura al fantasy folk), ma colpisce per la raffinatezza e la profondità di scrittura, regia e montaggio. Lato drammaturgico, esplodono le pulsioni politiche dei primi due capitoli, qui producendo eco udibilissime che vibrano in maniera distinta. C’è la Brexit e, più in generale, il rischio del protezionismo ideologico come spettro dominante. C’è la guerra, che compare anche visivamente attraverso l’efficacissimo montaggio il quale, a tratti, interpola, a mo’ di parallelismi, immagini di repertorio. C’è addirittura il tema, delicatissimo, dell’eutanasia, trattato con una dolcezza commovente. Lato tecnico-formale, Danny Boyle è carico a molla, e ogni inquadratura rischia di essere mozzafiato. Immagini sbilenche che trasudano una tensione perfettamente memore del primo capitolo; campi lunghi e lunghissimi, ove la caccia agli/degli infetti si staglia su sfondi di rara meraviglia (con tanto di aurore boreali e sbalorditivi tramonti); concessioni pulp ben oltre il torture porn (persone la cui testa viene divelta dal corpo portandosi dietro tutta la colonna vertebrale). Un po’ di tutto, ma in una soluzione mai impazzita. E gli infetti, in un certo senso, relegati a sfondo, perché qui si tratta di esplorare la metafora di partenza (che poi metafora non è nemmeno così tanto, perché la trilogia attraversa storicamente la pandemia del Covid). Si tratta di sondare i modi attraverso i quali l’umanità si auto-annienta e si rigenera, esplorando se stessa. E così facendo, anche di vagliarne le derivazioni e le derive antropologiche.
L’impressione, alla fine di 28 anni dopo (dopo la ilare comparsa di un gruppo di bislacchi guerrieri biondi, ennesimo shock regalato a uno spettatore già in totale esaltazione), è di aver visto un film eccezionale, non solo nel senso elogiativo dell’aggettivo, ma anche in quello etimologico. Un film, cioè, che fa eccezione, ricordandoci che l’autorialità non teme il genere, e anzi è capace di usarlo a proprio vantaggio. A Boyle-Garland piace rischiare, e quindi si apre a un ulteriore seguito. Staremo a vedere, ma intanto godiamoci quello che è, senza dubbio, uno dei migliori film del 2025.
