Commedia, Recensione

LA DEA DELL’AMORE

Titolo OriginaleMighty Aphrodite
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1995
Genere
Durata95'

TRAMA

Lenny e Amanda adottano un bimbo. Dopo qualche anno, all’uomo viene l’idea di rintracciare la madre naturale del suo Max…

RECENSIONI

Dopo quell'irresistibile, brillante, disilluso trattato sulla vita e il teatro che è Pallottole su Broadway, Woody si concede - apparentemente - una parentesi di leggerezza: la storia del giornalista sportivo che "rieduca" una vistosa e ingenua prostituta non è altro che l'ennesima riscrittura del mito di Pigmalione, e soprattutto il pretesto per alcune delle gag più riuscite di tutta la filmografia di Allen (merito anche dello scenografo Santo Loquasto: il décor dell'appartamento di Linda è da antologia del porno - comico - kitsch). Ma sotto la frizzante superficie si nasconde (non troppo, per la verità) una tragedia vera e propria (infatti provvista di regolamentare Coro greco, che canta e danza a tempo di jazz, e di riferimenti espliciti alla mitologia, fin dal titolo originale che inneggia ad Afrodite), e anche una riflessione per nulla banale sui rapporti tra arte e vita. Impossibile non cogliere suggestioni, se non echi, autobiografiche nella vicenda narrata, al centro della quale troviamo una coppia che, dopo avere adottato un figlio, finisce sull'orlo del divorzio, mentre Helena Bonham Carter è simile in maniera impressionante, per aspetto e atteggiamenti, alla Mia Farrow anni Ottanta. Ma non è (solo) la vita privata del regista ad essere messa simpaticamente in discussione: Allen riconsidera criticamente uno dei cardini della sua drammaturgia, la maschera del "Salvatore", dell'omino in gamba che cerca di elevare intellettualmente, e spesso anche moralmente, la sua compagna (se poi l'operazione abbia successo, è un'altra questione). Su un simile personaggio sono costruiti capolavori come Io e Annie, Manhattan, Broadway Danny Rose. Nella Dea dell'amore questa "operazione di salvataggio" è trattata in modo meno lineare del solito: la puttana dal cuore d'oro acquisisce una condizione di rispettabilità, ma allo stesso tempo fa capire a Lenny quanto sia importante il legame che ha con la moglie e il bambino. Linda, simbolo di una svolta creativa, prelude alle più recenti eroine del regista, da Steffi (Tutti dicono I love you) a Robin (Celebrity), da Hattie (Accordi e disaccordi) alla coppia formata dalle cugine Frenchy e May in Criminali da strapazzo, tutte donne non prive di difetti ma sostanzialmente molto più positive degli uomini. Woody si permette anche (inaudito!) di scherzare sulla psicanalisi, insinuando dubbi sulla sua efficacia (si vedano i battibecchi di Lenny con il Corifeo, accusato di essere solo un chiacchierone invadente e inconcludente, totalmente avulso dalla realtà dell'azione) e più in generale sulla possibilità di comprendere qualcosa di noi stessi: il cuore, come è noto, non s'intende di logica. E allora, ecco la musica, espressione primigenia dell'energia universale, da sempre molto importante nel cinema di Allen, che infatti avrebbe realizzato, a pochi mesi di distanza, un vero e proprio musical. Un film quasi eversivo, sempre divertentissimo, screziato di una sorridente volgarità che troverà la sua piena espressione in Harry a pezzi, La dea dell'amore si avvale di interpreti magnifici, tra cui Mira Sorvino, premiata con l'Oscar come migliore non protagonista, e il simpatico Michael Rapaport.

Woody Allen, invecchiando, pare smussare gli angoli, essere meno feroce o autolesionista e questa sorta di favola sentimentale in cui ha una parte, per una volta, “positiva” (eroe e cupido), è una delizia che arricchisce il suo filone leggiadro ma non (del tutto) inconsistente. In ogni sua opera è presente un’idea motrice singolare, da cui partire per uno svolgimento uguale a se stesso: in questo caso non solo guarda al passato, alla commedia classica hollywoodiana, con tanto di lieto fine e parti musical, ma si avvale anche dell’espediente bizzarro di ripescare dall’antichità, con tanto di Cassandra iettatrice, di Tiresia (Jack Warden) veggente cieco per le strade di New York e di coro greco che fa da contrappunto e coscienza al protagonista, cantando in versi (“sporcati”, buffonescamente, dal gergo moderno) e aggirandosi per il teatro di Taormina. Un tuffo nel classicismo in cui non può mancare il deus-ex-machina (in elicottero). Ma a rendere accattivante una commedia con i consueti temi (la fine della passione, la paternità, la ricerca di un’avventura) è la sorprendente Mira Sorvino (figlia dell’attore Paul): c’è una lunga tradizione, nel cinema americano, di memorabili ruoli da prostitute stile Shirley MacLaine (Irma la Dolce), e l’attrice s’è portata a casa un Oscar con una prova che si perde nella versione italiana (che ne mantiene l’accento artefatto), arrancante anche nella traduzione del coro. Anch’essa ormai archetipica, la figura della lucciola è spesso protagonista di un’amicizia che si trasforma in amore con “l’uomo rispettabile”, per fugare i pregiudizi: in questo caso, però, Allen, sceglie una chiusura che va contro le aspettative. Kitsch pornografico l’arredamento dell’appartamento di Amanda (Helena Bonham-Carter).