Drammatico, Sala

L’ALBERO DEI FRUTTI SELVATICI

Titolo OriginaleAhlat Agaci
NazioneTurchia, Macedonia, Francia, Germania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Svezia
Anno Produzione2018
Durata188'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Sinan è appassionato di letteratura e ha sempre desiderato essere uno scrittore. Ritornato nel villaggio in cui è nato, si impegna anima e corpo a raccogliere il denaro di cui ha bisogno per essere pubblicato, ma i debiti del padre lo raggiungono…

RECENSIONI

Subito dopo la laurea, un giovane con ambizioni intellettuali mal riposte (aspirante scrittore, ma senza la minima chance di incontrare un pubblico) rientra a casa dei genitori nella provincia profonda, senza molte prospettive per il futuro, e alle prese con una famiglia disfunzionale.
Un piccolo esordio indipendente americano covato, prodotto e mostrato dal Sundance? Un nuovo oggettino carino carino della giovane e già vecchissima tendenza mumblecore? No: è il primo film didopo la Palma d’Oro ricevuta con l’ultima sua opera, e che presumibilmente dovrebbe rendere più universale (almeno geograficamente) la portata del suo cinema. Un film che chiarisce in maniera ormai inequivocabile la direzione che il celebrato regista turco intende prendere: ora che non c’è più bisogno di massicce dosi di splendore figurativo-fotografico per ricavare valore spendibile sul mercato cinematografico globale, Ceylan può tornare alle ambizioni dei primissimi film, che erano quelle di romanzare con il cinema, anche grazie a una valanga di dialoghi ultrascritti. Ahlat Agaci restringe le parentesi puramente visuali a pochi, splendidi fraseggi poetici di montaggio che legano insieme personaggi e paesaggio in maniera assai ispirata (come nella scena del bacio con l’amica d’infanzia, o nella sordida scena del furto simulato tra le mura domestiche, o quando vengono azzardate rischiose ma in ultima analisi azzeccate metafore visive), e che interrompono (con evidente funzione di supporto) un tessuto di parole altrimenti fittissimo. Un tessuto che si srotola senza dare corpo ad una vera storia, ma piuttosto sostituendo ad essa, quale unica marcatura di una qualche progressione vagamente narrativa, il fatto che il giovane protagonista Sinan diventa vieppiù frustrato e, di conseguenza, arrogante, ad ogni confronto verbale che si trova ad intrattenere con ogni adulto che transita intorno a lui.
Seguendo questo filo, Sinan arriverà, dopo tre ore di film, a ciò cui già i primissimi minuti sembravano palesemente destinarlo: a un confronto con una figura paterna (gran personaggio, fra l’altro) lontanissima e vicinissima: un altro mezzo intellettuale destinato da sempre a diventare, come Sinan, un outsider in una società cieca e sorda. Un gemello più che un padre, o meglio padre solo nella misura in cui si rivela uguale al figlio, accomunato da una medesima, volenterosa, eccentrica e generosamente perdente tensione a cercare vie improbabili e laterali al senso comune. Ma per agevolare l’evidenza di questo parallelismo, il padre non può fare nulla, perché altrimenti si doterebbe di autorità, mentre invece proprio l’assenza di quest’ultima permette un recupero paradossale del legame paterno. E allora sarà il figlio a dover per forza andare a tentoni, fino ad arrivare a forza di sbandamenti alla coscienza dei propri limiti (e a quelli del padre, alcuni dei quali significativamente Sinan si rifiutava di ammettere, di contro alla più schiacciante evidenza) – il che spiega e giustifica pienamente la zigzagante e liberissima struttura del film, che scivola sinuosa da dialogo interminabile a dialogo interminabile. È per esclusione, insomma, che il figlio finisce per riavvicinarsi al padre, riconoscendo la propria identità in quella di lui, in quanto entrambe incompiute.
E per quanto Ceylan eccella nell’intensificare la luminosità della luce solare senza sacrificare la nitidezza dei contorni, nel pennellare superbamente con le ombre per arricchire le inquadrature (e la luce dei giorni uggiosi viene usata ancora meglio, così come gli spazi “off” e dimessi degli spazi urbani e semiurbani di riferimento), nel calibrare una composizione grafica sempre di gran pregio anche se molto meno invasiva dei film precedenti, un po’ di amaro in bocca rimane. Perché Ceylan i dialoghi non li sa ancora maneggiare con la stessa abilità con cui maneggia le immagini: troppo spesso incline all’accelerazione quale facile compensazione in assenza di un vero ritmo, troppo spesso monocorde. Troppo spesso viene fatto ricorso a trucchetti, come interruzioni improvvise del flusso verbale da parte di eventi esterni, giusto per dare una parvenza di diversificazione della partitura orale. Ma chi dice Paternità dice Parola, e in un film che, pur in maniera radicalmente eccentrica (come eccentrici sono loro due), e con numerose ottime intuizioni tanto psicologiche quanto psicanalitiche (sintesi rara), si fonda sul rapporto padre-figlio, sarebbe stato preferibile che alla parola fosse stata maggiormente data la cura di una forma.

«Non esiste una sola verità», urla esasperato lo scrittore affermato al quale il giovane aspirante romanziere Sinan si è rivolto, in apparenza in cerca di consigli sulla strada intrapresa, sui rischi e responsabilità di un intellettuale nonché sul significato della letteratura oggi tra impegno e ripiegamento, in realtà per vomitargli addosso, in forma passivo-aggressiva, tutto il sarcasmo di un ragazzo già disilluso e deluso dallo stato delle cose, che nelle vecchie generazioni vede solo il germe di una contemporaneità considerata ipocrita e sterile. Subito dopo, in una sequenza dallo statuto ambiguo che si rivelerà essere un sogno, il ragazzo, braccato per aver rovinato in un gesto di stizza una delle statue che adornano un ponte cittadino, si rifugerà nel ventre del modello del cavallo di Troia che si trova sul lungomare della città. Sinan, infiltrato in un mondo sospeso tra modernità agognata e ostinato conservatorismo, in quello stesso mondo intrappolato, di questo variegato e inquieto teatro umano è al tempo stesso attore e spettatore, abitante ed esule, fustigatore e vittima. Un’esistenza contraddittoria che non trova soluzione nell’azione, impantanata in fatiche inutili, circolante in giri a vuoto tra campagna e città, bloccata in un falso movimento, sospesa su un pozzo scuro.


L’inafferrabilità del reale, la coesistenza di molteplici verità costituiscono il dramma – la tragedia, forse – cui va ineluttabilmente incontro Sinan, ventenne malmostoso e frustrato, tornato a casa dopo la laurea, nel villaggio natio vicino alla città turca di Çanakkale sulla sponda asiatica dello Stretto dei Dardanelli. Presente incerto, futuro ancora più fumoso, il ragazzo vaga nella provincia di un impero decaduto, costellata di figure con cui intrattiene fluviali conversazioni dall’approdo nullo, nelle quali si intrecciano e si dibattono questioni morali e religiose, riflessioni sul tempo (perduto, smarrito, sprecato) e sul senso delle tradizioni e dell’Islam contemporaneo, parole su parole, rovelli su rovelli. Davanti a sé l’ipotesi assai poco gradita dell’insegnamento, probabilmente in qualche sperduta regione dell’est del paese (mestiere, per di più, del disprezzato genitore), in alternativa la carriera militare, sola via di fuga – imboccata senza troppa convinzione – la letteratura. Per pubblicare il suo primo romanzo (o come preferisce definirlo lui stesso tra scherno e autocompiacimento: «un metaromanzo ermetico di auto-finzione»), non potendo contare né sulle sue tasche né sui risparmi di famiglia dilapidati dal padre, scommettitore incallito e indebitato a destra e manca, si rivolge ai notabili del villaggio in cerca di finanziamenti. Con quell’opera intende non solo riscattare una vita che sente già predestinata al fallimento e all’inazione ma anche, appunto, circoscrivere la sua mal tollerata terra in qualcosa che sia poeticamente, letterariamente univoco, stratificato al punto da non poter essere riassunto in poche frasi ma che di verità alla fine ne trattenga una e una sola, valida per sempre, puntando i riflettori della sua presunta arte sul dettaglio umile, quotidiano, dimesso, sulla cultura rurale lontana dai resti favolosi di Ilio, dall’eroismo dei martiri di Gallipoli, dalla retorica ufficiale di un paese con i quali rappresentanti (il politico, l’imprenditore, l’intellettuale, l’imam) il dialogo è difficile, spesso travalicante nello scontro.


Non è un personaggio simpatico Sinan e non fa nulla per esserlo. Sprezzante, arrabbiato, velleitario, misantropo (e lui stesso si chiede come possa fare lo scrittore chi non ama gli esseri umani), Ceylan lo ha scelto come perno del suo ultimo lavoro, a quattro anni di distanza dalla Palma d’Oro Il regno d’inverno: un malinconico e disincantato romanzo di formazione universale che è anche un affresco sociale della provincia turca (o viceversa). Non ha paura, Ceylan, di praticare un cinema caparbiamente d’autore, probabilmente impervio, forse démodé, che chiede molto allo spettatore ma molto dà, in cui le matrici letterarie sono chiare ed esibite (i grandi autori russi, Cechov su tutti), ma senza complessi d’inferiorità, piuttosto come riferimenti obbligati e imprescindibili che oltrepassano la specificità del mezzo espressivo per condividere quella che è una visione - sconsolata -  del mondo. Lunghi dialoghi puntellano il racconto, copiosi, anche estenuanti, ma a differenza dell’opera precedente il ritmo è più disteso e sinuoso, la macchina da presa più fluida, inaspettatamente mobile, quasi a voler tentare di penetrare in tutte le pieghe dell’esistenza e al contempo evaderne, perlustrando un territorio geografico che è anche mentale. I piani sequenza delle conversazioni, lontani da ogni esibizionismo formale, sono allora interrotti da improvvisi carrelli o campi-controcampi, da primi piani, dal montaggio visibile di continue vie di fuga (gli sguardi verso l’ingresso della libreria nella sequenza dell’incontro con lo scrittore, i campi lunghi sulla campagna turca che spezzano il walk-and-talk del dialogo con gli imam, rendendo di difficile individuazione le voci che parlano). La luminosa fotografia digitale del sodale Gökhan Tiryaki rende inscindibili realtà e allucinazione (un neonato coperto di formiche; un cane che si tuffa e scompare nelle acque fredde del porto di Çanakkale; un doppio suicidio, paterno e filiale, al tempo stesso temuto, immaginato o desiderato; la dissolvenza, tra neve e nebbia, che introduce il segmento conclusivo) e conferma Ceylan come uno dei massimi metteurs en scène del paesaggio nel cinema contemporaneo, paesaggio che drammaticamente rilancia, contrasta, amplifica la narrazione in corso (si veda, tra tutte, la meravigliosa sequenza dell’incontro con l’amica di scuola prossima alle nozze, in cui la sostanza amarissima dello scambio tra i due viene alleviata dallo stormire del vento tra le fronde degli alberi, in un angolo campestre bagnato dall’oro caldo della luce autunnale, siglato da un bacio rubato che sanguina sogni giovanili svaniti per sempre).


È una struttura centrifuga e provvisoria quella costruita dai passi e dagli incontri di Sinan. E il centro, continuamente evitato, dileggiato, rimandato, non può che essere il padre, Idris, specchio scuro nel quale il figlio scorge quasi una dannazione, uomo dal fascino sgualcito ma resistente (la moglie, nonostante tutto, lo risposerebbe di nuovo), nel quale s’indovina uno spirito progressista e antiautoritario – a differenza del figlio, ideologicamente confuso – che non ha retto all’urto dei tempi, reagendo ad essi con rassegnato fatalismo e ripiegando nel conforto di un’arcadia ruvida e pietrosa. È lui il pero selvatico che campeggia nel titolo del libro di Sinan, le cui copie invendute giacciono in un angolo della casa ad assorbire umidità, l’albero deforme e solitario dai frutti sgraziati nel quale il ragazzo rintraccia un’identità patrilineare, un comune destino da emarginati. Ed è lui, beffardamente, l’unico lettore e ammiratore della sua opera, «in rivolta permanente contro l’assurdità dell’esistenza», come lo definisce causticamente Sinan, azzeccandone involontariamente la statura morale celata sotto un comportamento immaturo e irresponsabile. Nelle immagini finali la riconciliazione ha il retrogusto di una sconfitta, il sollievo rima con lo scacco. Sinan si cimenta nell’impresa disperata abbandonata dal genitore: un tunnel senza sbocco in una terra infeconda. Dietro una vecchia foto, Idris aveva scritto: “Non conosco la fine della strada ma cammino”. L’orlo del pozzo disegna una superficie riflettente nel quale padre e figlio finalmente, dolorosamente, si riconoscono.