TRAMA
Nel paesaggio lunare dell’Anatolia, una carovana di tre macchine vaga alla ricerca di un cadavere seppellito in un campo. Nella prima, col commissario Naci, il dottor Cemal e l’agente di sorveglianza, si trova Kenan, il reo confesso. Nella seconda viaggia il procuratore Nurset insieme all’autista e agli addetti allo scavo. Nella terza, una jeep dell’esercito, è custodito Ramazan, il secondo sospettato. La perlustrazione gira a vuoto, dal momento che Kenan afferma di non ricordare esattamente il luogo del seppellimento poiché era ubriaco, ma la sosta notturna in un piccolo villaggio cambia le carte in tavola.
RECENSIONI
Definire C'era una volta in Anatolia un poliziesco tout court sarebbe una sciocchezza sesquipedale, eppure il sesto lungometraggio del cineasta turco Nuri Bilge Ceylan si ispira a un'autentica indagine poliziesca: la ricerca di un cadavere effettivamente compiuta da Ercan Kesal (cosceneggiatore del film nonché interprete nel ruolo del sindaco Mukhtar) quando prestava servizio come medico in Anatolia. Insieme allo stesso Kesal e alla moglie Ebru (cineasta, attrice e sceneggiatrice), Ceylan ripropone la squadra creativa de Le tre scimmie per riscrivere lo spunto di partenza in chiave cinematografica. Il primo scoglio da superare consiste nella durata: comprimere un evento durato circa dodici ore in due ore e mezzo (il minutaggio finale, notevole ma perfettamente giustificato dalle esigenze della narrazione, è il risultato della scrematura di un primo montaggio di circa duecentodieci minuti). Il secondo accorgimento riguarda invece la costruzione di un racconto in cui gli spettatori condividano il sapere dei personaggi senza avere immediatamente la soluzione dell'enigma (la conoscenza dei fatti si delinea letteralmente strada facendo). Il terzo espediente, infine, concerne la determinazione di una coscienza centrale che, pur non monopolizzando la scena, fornisca un punto di riferimento visivo e cognitivo allo spettatore (centralità assegnata al dottor Cemal, interpretato da Muhammet Uzuner, che col passare dei minuti si afferma come personaggio cardine).
Ed è innegabile che, forte di questa triangolazione tra durata, andatura indiziaria e punto focale, C'era una volta in Anatolia sia di gran lunga e senza ombra di dubbio la pellicola più convincente e risolta di Nuri Bilge Ceylan: gli inospitali ammiccamenti di Uzak, la compiaciuta indolenza de Il piacere e l'amore e soprattutto la dissonante incongruenza de Le tre scimmie lasciano spazio a una riuscitissima sintesi stilistica. Stavolta narrazione e rappresentazione armonizzano mirabilmente, dando vita a un film in cui la coralità dell'impianto (la carovana delle tre macchine scarrozza una quindicina di personaggi) non ostacola la precisazione dei singoli caratteri né intralcia il ritmo di una progressione drammatica che, episodio dopo episodio, si carica di sfumature confidenziali e lampi inaspettati (la crescente intesa tra il dottore e il procuratore Nurset; la folgorante comparsa di un volto scolpito nella pietra che spaventa il medico appartatosi a mingere nella steppa). Il tono del racconto oscilla felicemente tra il grottesco delle beghe burocratiche e la mestizia delle confessioni intime: se il primo registro colora la narrazione con tinte ridicole (rese ancora più squillanti dalla lontananza dai luoghi del potere), il secondo la impregna di note profondamente malinconiche (il racconto della morte annunciata della moglie del procuratore; la rassegnazione del commissario Naci).
Concentrata sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla tenuta narrativa, la scrittura si tiene alla larga dallo psicologismo spicciolo, anche quando si dedica alla raffigurazione di dinamiche meschine e potenzialmente avvilenti (le dispute tra il procuratore e il commissario, le accuse di sadismo rivolte al reo confesso Kenan). A contare non è tanto la costruzione di personalità rigidamente qualificate e di facile lettura (per quanto alcune figure di contorno sfiorino la caricatura, come il sergente ultrazelante), ma il tratteggio di caratteri a bassa definizione e soggetti al mutamento: il confronto reciproco tra i personaggi apre continui varchi nei loro partiti presi, li obbliga a ripensare agli altri e a se stessi (lo sconcerto provato dal commissario di fronte all'irriducibile altruismo di Kenan; l'incapacità del dottore nel sostenere il proprio sguardo davanti allo specchio). Non c'è scetticismo o autoindulgenza che tenga, la notte passata nel cuore dell'Anatolia lascia un segno indelebile nelle coscienze dei singoli (la comparsa della bellissima figlia del sindaco nel villaggio di Ceceli: un cataclisma a lume di candela). Un processo di trasformazione che si nutre delle suggestioni ambientali come cassa di risonanza dell'interiorità (si pensi al dialogo 'alabiale' tra il dottore e l'autista Arab: disancorate dalla sorgente sonora umana, le parole sembrano scaturire direttamente dalle vibrazioni del paesaggio).
Ciononostante - e in questo, secondo chi scrive, risiede il limite non solo del film ma del cinema di Ceylan - C'era una volta in Anatolia tradisce una dipendenza dalla dimensione narrativa che gli impedisce di svincolarsi dall'obbligo di raccontare, di liberarsi, sia pur provvisoriamente, dalla tirannia dell'intenzione comunicativa ('Sono consapevole del fatto che sia un film difficile per lo spettatore, ma al tempo stesso rivendico la presenza di un contenuto. Non vi è nulla sullo schermo che io non possa giustificare e sono in grado di rispondere a domande relative a ciascun dettaglio e di spiegare il comportamento o le battute di ciascun personaggio', dal pressbook). Persino i momenti di apparente deriva visiva (la camera che segue la caduta di una mela dall'albero finché non si ferma nel greto di un ruscello) o di enfatizzazione del fuori campo (l'autopsia non mostrata esplicitamente ma resa tangibile dai rumori della rimozione degli organi e dallo sgocciolio), sono pienamente riconducibili al dominio metaforico (l'inchiesta si incaglia; il dottore si sporca di sangue). Sudditanza narratologica che tuttavia toglie poco o nulla alla riuscita di un film splendidamente girato in digitale (con una Sony F35) e magnificato da un formato panoramico che esalta la stepposa vastità della regione anatolica. Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.
FIRS Avevo venti anni, o venticinque; andiamo io, il figlio del padre diacono, e il cuoco Vasilij, e là tutt'a un tratto su quella pietra, c'è un uomo seduto... uno di fuori, mai visto... Io per qualche ragione ebbi paura, me ne andai e quelli senza di me lo presero e lo ammazzarono... Aveva soldi...
CHARLOTTE Beh? Weiter.
FIRS Poi, vuol dire, fecero il processo, cominciarono a interrogare... Arrestarono tutti... Anche me... Rimasi due anni in galera... Poi niente, m'hanno rilasciato... Fu molto tempo fa...
Pausa.
Chi si ricorda più?
CHARLOTTE E' ora che muori, nonno.
Cechov, Il giardino dei ciliegi, atto II (prima stesura)
Un vetro opaco. Al di là del vetro, una vita sta per spegnersi (ma ancora non lo sappiamo). Una finestra, oltre la quale la vita, impercettibilmente e misteriosamente, sta riprendendo il suo corso ordinario, dopo la morte, nonostante la morte. Tra queste due immagini si snoda, apparentemente immobile ma in realtà denso di fremiti e invenzioni, che a tratti deflagrano con potenza quasi insostenibile, il film di Ceylan, poliziesco dell'anima, indagine sul (non) senso dell'esistenza, autopsia di un ricordo che assume di volta in volta i tratti del delirio e della premonizione. Ma più ancora di questo, C'era una volta in Anatolia è un film sulla visione, sulla difficoltà di mettere a fuoco le evidenze (la mela che cade in acqua, l'apparente e necessaria crudeltà riservata al cadavere), sulla necessità di ancorare lo sguardo a punti di riferimento sicuri e concreti (i tentativi di individuare la scena del crimine), sull'impossibilità di distinguere oltre ogni ragionevole dubbio la realtà dal sogno (la sequenza del blackout, strategicamente collocata al centro del racconto e che costituisce la chiave di volta della vicenda). Questa storia umana (troppo umana), identica a tante altre, fatta di tradimenti a più livelli, menzogne e segreti strettamente intrecciati fra loro, è narrata con un respiro epico, cui contribuisce in maniera decisiva lo scenario indeterminato, non solo per la vaghezza delle coordinate spaziali (una fontana, un albero, una strada sterrata, da qualche parte in mezzo al nulla), ma per la notte impenetrabile in cui è immersa la prima parte del racconto. La ricerca del cadavere (ricerca che si profila poco per volta, tra digressioni e false piste: anche il film è alla ricerca del proprio soggetto) va avanti nel buio sempre più fitto, a stento e vanamente illuminato dai fari delle automobili, mentre i dettagli decisivi (le sculture antropomorfe) emergono solo grazie alla furia della natura, che fin dal prologo appare al tempo stesso presaga e indifferente alle sventure umane. Giustamente il regista ha riconosciuto in Cechov una delle proprie fonti di ispirazione (intervista a Positif n. 609, novembre 2011). Se Ceylan si riferisce in particolare alle novelle, è difficile non notare le somiglianze tra il dottor Cemal e Astrov, il medico stanco e sfiduciato, ma disperatamente idealista, di Zio Vanja, o le affinità tra il procuratore Nusret e il tenente colonnello Versinin di Tre sorelle, sposato con 'una mezza matta (...) [che] ogni tanto si suicida, così, per far dispetto al marito'. (Marito che, peraltro, le sarà infedele.) Ancora da Cechov, e più precisamente dal Giardino dei ciliegi, sembra derivare il senso di un'attesa in(de)finita, un presagio di catastrofe incombente destinato a non concretizzarsi mai, e pertanto ancora più terribile, mentre a Zio Vanja e al Gabbiano rimandano i disperati interrogativi circa l'utilità dei ricordi e delle esperienze individuali.
La grandiosità del disegno cinematografico e la studiata lentezza di molte sequenze (tutt'altro che tediose o strascicate, tanti sono gli spunti e le illuminazioni che le punteggiano) non impediscono al racconto di assumere ora toni meditabondi e raccolti (i dialoghi del dottore con il poliziotto e il procuratore), ora decise sfumature grottesche (la figura del commissario e più ancora quella del sindaco), o ancora una combinazione delle due (il fratello del sospetto). Dopo la sequenza del blackout, tutto sembra finalmente chiarirsi. Il nero della notte cede il passo alla luce caliginosa del giorno, ma le reticenze continuano: l'interrogatorio decisivo non viene mostrato, emerge un possibile movente, le modalità dell'omicidio e l'identità del reale assassino permangono misteriose. Del resto la 'verità' ricercata dal regista non è quella legata alle azioni concrete, ma quella dei sentimenti (come dimostrano gli echi che legano la vicenda delittuosa a quelle personali del dottore e del procuratore), in nome della quale il più efferato dei crimini assume i tratti di un atto di amore (benché oscuro, contorto e contraddittorio), cui alla fine sceglie di adeguarsi, con sprezzo delle possibili conseguenze, il medico stesso, siglando con l'estrema menzogna il percorso di ricostruzione di una verità mai così distante dalla realtà dei fatti. Indifferente agli schemi di genere (pronto però a giocarvi senza timori o comode prudenze), lontano dalle mode, contraddistinto da una cura quasi pittorica dell'immagine (il che non si traduce automaticamente in scelte ingessate o leziose), sovradimensionato in tutto (anche nella durata) rispetto a un cinema 'normale' quanto insignificante, e quindi giustamente (?) distribuito in Italia con un anno di ritardo, il film di Ceylan potrebbe essere davvero l'ultimo guizzo della stagione.