Che gli Elbow fossero qualcosa di speciale lo si era capito fin dalla pubblicazione del primo album, Asleep in the back: accoglienza buona ma un po’ disorientata, con riferimenti ai Coldplay di derivazione Radiohead quanto al neoprog più o meno (in)ascoltabile. (?). In effetti, quella del gruppo di Guy Garvey è una formula solo apparentemente intelligibile (pop?) ma in realtà personale quanto sfuggente. Trattasi di brani dal minutaggio mediamente generoso, dalla struttura non molto dinamica, con crescendo sommessi e implosi, spesso ipnotici e/o ossessivi nell’incedere, con qualcosa di interruptus onnipresente ma più o meno illocalizzabile.
Il secondo album (Cast of thousands) fu, come da copione, interlocutorio ma conteneva delle chicche da Patrimonio dell’Umanità come Fugitive Motel, pezzo di una bellezza imbarazzante.
Poi fu la (s)volta della “malizia pop”, con Leaders of the free world, dove i nostri dimostravano di avere i numeri per scendere nell’agone radiofonico con le stigmate dei fuoriclasse (Forget Myself, Mexican Standoff). Dunque, bum, la bomba:
The seldom seen kid dava finalmente un senso compiuto alla parabola del gruppo, posizionandoli nell’empireo dei Grandi(ssimi). Quell’approccio deciso ma non magniloquente all’affaire musicale prendeva finalmente una forma precisa e inequivocabile, con quell’aurea da instant classic che pochi, ormai, si possono permettere, persi dietro all’ultima deriva (hyper)dub(step) e/o revival shoegaze dream-pop-ato. No. Gli Elbow parlano il linguaggio della canzone tradizionale ma, insieme, già “oltre”, classica ma moderna, come scolpita nel tempo, refrattaria alle mode, mediamente esigente con l’ascoltatore (tipo: la melodia te la do ma per lasciarti entrare dammi un po’ di tempo). La conferma della bontà della formula Elbow, così come la si ritrova cristallizzata in TSSK, la si ha nella riuscita del folle progetto The seldom seen kid live at Abbey Road, una roba che sulla carta pareva irricevibile (il gruppo rock/pop con l’orchestra? Seriamente? Nel 2009?). invece. Invece la solidità formale (e, diremmo, emotiva) di pezzi come Mirrorball (cfr. Fugitive Motel), An audience with the pope (ironicamente altezzosa) o The loneliness of a tower crane driver (un tempo si sarebbe detto “da brividi”, ma si arriva alla fine del brano e si ridà credito a certe obsolete iperboli) ne esce assolutamente intatta. Anzi.
E arriviamo a Build a rocket boys! La sensazione è quella del post-capolavoro, del gruppo che non ha più nulla da dimostrare e che dispensa classe in surplace, senza ansie da prestazione. Perché se in The seldom… , specie col senno di poi, la voglia di “spaccare il mondo” era palpabile, con qualche eccesso di grandeur, qui si ripete/ribadisce la formula (che comunque aveva fatto quadrare il cerchio) e la si prosciuga. Del tipo: il massimo risultato con l’apparente minimo sforzo. L’iniziale The Birds è un buon bignami della formula Elbow: una progressione statica con una melodia catchy ma non così “immediata”, si attende una variazione, un’esplosione che non arriva, almeno fino al minuto 3:25, dopo un ponte sospensivo che poteva anche essere finale, quando entra, in loop, un giro di tastiera prog tipo IQ, e poi gli arrangiamenti si saturano, e la vera “svolta” è un espediente teoricamente stantio, con la stessa melodia che sale semplicemente di tono, ma che invece funziona, funziona fino alla fine, e siamo a 8 minuti… Questi sono gli Elbow, che non inventano niente ma ricombinano, compongono e in definitiva re-inventano, suonando irrimediabilmente Elbow. Segue la sognante Lippy kids, con l’effetto PeterGabriel fin troppo, pericolosamente mimetico, e poi il pop gospelizzato di With love, e il singolo appena più aggressivo Neat little rows (cfr gli ultimi Coldplay, ma meglio), e poi la ballata acustica – Jesus is a rochdale girl – in punta di fioretto con tastiera retrò a sporcare quel pizzico, che lascia il posto al dream pop rallentato, vagamente badalamentizzato di The night will always win. High ideals ha suggestioni solari, The river è una ballata pianistica che vorresti più lunga dei suoi due minuti e cinquanta, ma arriva il crescendo inesorabile di Open arms, col suo chorus grandioso, e ti consoli. Si prende fiato con The birds reprise (canta John Moseley) e siamo al degno congedo: Dear friends è un brit-pop elettroacustico che sembra uscito dai tardi 90’s / primi anni 0, quando anche i “minori” (Aqualung, Starsailor, Travis) ti azzeccavano il pezzo giusto. La differenza – non certo la sola né la più importante – è che gli Elbow i pezzi li azzeccano tutti.