Chiudiamo questo lungo speciale con la top 20 – i video preferiti del decennio – e con l’elezione dei registi che hanno segnato gli anni Dieci.
Buona visione, buon ascolto.
TOP 20
# 20
Memory (Jackson & His Computer Band)
diretto da So Me, 2014
La memoria è traditrice e quando riguarda all’amore passato anche di più. Se si aggiunge un evento traumatico, allora la situazione si fa davvero complicata. Come si è svolta davvero la storia di Lui e Lei in questo video?
All’inizio di Memory, in una scena dialogata, Lui è in un’auto che fa lo sbruffone con due ragazze; è distratto, forse brillo.
Dissolvenza: vediamo il corpo di Lei disteso sull’asfalto, una bicicletta rovesciata a terra. Dissolvenza, comincia il brano: Lei, in barella dopo l’incidente, viene trasportata verso l’ambulanza.
Dissolvenza, comincia il viaggio mentale in diversi scenari del passato. Si torna alla prima scena più vicina nel tempo, quella dell’auto con Lui e le due ragazze: i tre stanno scherzando e il ragazzo è evidentemente distratto. Infatti l’auto investe una ragazza in bici: Lei. Gli scenari passati visti in precedenza – che ricostruivano la love story – vengono richiamati dalla mente di Lei in maniera caotica e confusa.
Se lo schema apparente del video sembra quello di una rievocazione prima ordinata e poi disordinata di alcuni avvenimenti, in realtà, come suggerito anche dal testo della canzone, niente deve essere dato per certo. In questo video la storia d’amore di Lui e Lei viene raccontata da due differenti prospettive: non sappiamo se quanto vediamo sia il frutto di un delirio, di uno stravolgimento o un’edulcorazione dell’accaduto, perché anche quando le evocazioni sembrano lineari c’è il sospetto che la memoria sia fallace o condizionata da sentimenti (e risentimenti). Tanto per dirne una: la scena in cui Lei si adira con Lui non avviene casualmente in un autoscontro. Come non è casuale che l’intero video sia in un bianco e nero sgranatissimo: il passato è un tempo che si ripropone in una lotta continua con l’oblio che tende a cancellarlo e che, di quell’oblio, nonostante la resistenza della memoria, porta in sé i segni.
Come nella tradizione di tanta videomusica francese, Memory, video bellissimo che marchia a fuoco il 2014 riesce ad essere un racconto lirico e toccante e nel contempo un superbo saggio di scrittura per immagini che, prima del citatissimo Gondry, ricorda i primi film di Alain Resnais, per quel gusto nel mischiare evocazione del passato e realtà del presente (per cui la prima finisce per trasformare e travestire la seconda, fino a creare un’unica dimensione che le contiene entrambe) e per quel cubista frantumare l’unità del racconto.
Nel decennio di So Me anche quest’altro capodopera.
# 19
Go (The Chemical Brothers ft. Q-Tip)
diretto da Michel Gondry, 2015
Cosa c’è da dire ancora su Michel Gondry? Su quella che è stata la grammatica del videoclip di questi ultimi vent’anni? C’è da segnalare il terzo appuntamento con i Chemical Brothers (uno a decennio, tanto per metterci una pesante impronta sopra – e parliamo di due precedenti-moloch, Let Forever Be e Star Guitar -) e del sereno ribadimento di una visione, una di quelle puntualizzazioni che solo i grandi maestri, quelli che hanno detto cose fondamentali (e dato in misura proporzionale) possono permettersi senza apparire ripetitivi, pleonastici, senili.
Ma in Go, oltre alla maniera del francese (la coreografia di pole dance che traduce il suono alla lettera, come il paesaggio di Star Guitar, per fare un solo esempio) c’è di più: c’è lo scompaginamento del paradigma gondryano, il pianosequenza (la sua griffe), negato con stacchi di montaggio evidenti, cesure spudorate che garantiscono, però, il rispetto del primo dogma (la sincronizzazione, appunto). C’è che la serialità dei soggetti ottenuta senza effetti speciali è messa in scena in un contesto ritagliato dalla realtà, per quanto vagamente metafisico (il distretto di Front-de-Seine a Parigi, la cui urbanistica postmoderna è usata come perfetta “ambientazione” del suono del duo inglese); c’è un dichiarato omaggio alla pittura cinetica dei futuristi; c’è, soprattutto, una proposta artistica che è calata perfettamente nei tempi (clip low budget, come la congiuntura richiede). Go, dunque, non è un esercizio, ma si rivela il solo possibile video di Michel Gondry oggi: puramente concettuale, giocoso, colto, semplice/difficile, anti-kolossal, sì, ma ancor una volta in radicale opposizione all’estetica dominante, dunque lontano galassie dalla provocazione, dal twerking o dall’opportunistico uso del corpo-esca.
Politico, a suo modo (e qui c’è tradizione).
# 18
National Anthem (Lana Del Rey)
diretto da Anthony Mandler, 2012
La parabola di un JFK nero e popstar (A$AP Rocky), con Del Rey/Jackie Onassis (che nell’incipit gli canta un Buon compleanno come Marilyn) viene narrata attraverso un montaggio di falso found footage: sui melensi filmini familiari s’innesta l’impennata delle immagini recuperate dell’attentato al Mr. President A$AP (che richiamano quelle di Zapruder) in una ricostruzione splendidamente realizzata di un passato impossibile e alternativo.
Mandler (un catalogo tutto da sfogliare che nella decade perviene alla piena maturità: stile spudoratamente cinematografico, esplorazioni del genere, narrazioni forti, palette riconoscibile disciolta in quadri composti divinamente) mescola le carte della Realtà e del Mito e asseconda il gioco ucronico di Lana, riscrivendole la Storia su misura. L’azzardo della concezione e la stupefacente messa in scena , con armonico inserimento della performance (l’artista quasi ibernata in una foto mobile, in posa su una pelle di leone) lambiscono con sapienza il kitsch e toccano il sublime.
#17
Chandelier (Sia)
diretto da Daniel Askill e Sia, 2014
La prodigiosa Maddie Ziegler (da allora vero e proprio video dancer alter ego di Sia, artista invisibile per scelta) balla in un appartamento vuoto che vuole richiamare anche una dimensione mentale: intensità interpretativa, visione registica, costruzione coreografica e racconto sottinteso (la deriva alcolica, evocata anche dal testo della canzone) ne fanno uno dei titoli più significativi del decennio. Anche a posteriori, per lo spazio che si è guadagnato nella videomemoria collettiva. E per come ha spalancato le porte al dilagare del clip coreografico. Askill, intanto, dissipa i dubbi sull’eccesso di cerebralismo che caratterizzerebbe la sua produzione: i sospetti di freddezza si sciolgono di fronte a un lavoro che vibra di emozione dall’inizio alla fine.
Ryan Heffington si affermerà come il creatore delle più importanti coreografie in clip (e non solo) degli ultimi anni (da Fjögur píanó a Gunshot).
# 16
A$AP Forever (A$AP Rocky feat. Moby)
diretto da Dexter Navy, 2018
vedi qui
# 15
Pursuit (Gesaffelstein)
diretto da Fleur & Manu, 2013
Nel 2013 il duo registico francese, muovendosi in una dimensione retrofuturistica, mette in scena la storia di un ragazzo, discendente di una dinastia di regnanti, e del suo cammino verso il il perseguimento (pursuit) del potere.
Come in una stilizzata e stringatissima tragedia scespiriana, il video, in una sequela esaltante di immagini tanto inquietanti quanto enigmatiche, narra dell’investitura del giovane – inizialmente animato, con la principessa, sua sorella, da nobili ideali – e di come si trasforma nel capo in testa di un regime fascista, prima, e nell’immagine mummificata di un’egemonia archiviata, alla fine.
Apologo sulla vanità del potere, sulla disumanizzazione della società e sull’idolatria tecnologica, Pursuit convince per la straordinaria misura con la quale sfrutta le ambientazioni (un hangar, principalmente), per il suo procedere per abbaglianti quadri icastici, per la narrazione secca e ambigua a un tempo, per la scelta tecnica (i travelling all’indietro e ad allargare), che diventa la marca del video, e viene mantenuta con coerenza ed efficacia fino alla fine. Ancora una volta in un video del duo il lavoro di art direction è decisivo, esaltato da un’immagine glaciale (la direzione della fotografia è di Nicolas Loir), che manipola la realtà senza stravolgerla. Il video, per la presenza di due nudità, verrà censurato da You Tube (qui la versione integrale).
# 14
Apparition (Stealing Sheep)
diretto da Dougal Wilson, 2015
Come Gondry, anche Dougal Wilson (una delle firme più importanti degli anni Zero, oramai consacrato ai commercial e di ritorno alla videomusica dopo più di un lustro) gira un video di apparente vecchio stile, in evidente discontinuità con i tempi, ma coerente con la sua brillante produzione e con quel carattere fortemente britannico che contraddistingue da sempre i suoi lavori, così intrisi di iconografia tradizionale. Rielaborando un’idea già al centro di un suo video per Four Tet (As Serious As Your Life, in cui montava found footage sulla tradizionale Morris Dancing, in modo da adattarlo al brano) mette a punto un promo in cui divertimento, tecnica e concetto viaggiano allineati: così il pianosequenza è ovviamente finto, gli interventi in VFX sono concepiti in chiave quasi naturalistica, l’adesione al brano proviene da elementi sia coreografici sia apparentemente accidentali (le bocche delle maschere) e ogni aspetto (dal color editing cartolinesco alla messa in scena nel countryside inglese) appare ragionato e calibratissimo. Giocando argutamente di contrasto tra l’elettronica ipnotica del brano e la danza folk, Wilson perviene – attraverso un elaboratissimo progetto -, a un risultato straordinariamente lieve e apparentemente semplice, di quelli che si guardano senza stancarsi mai. Maestro.
# 13
Ice Cream (Battles feat. Matias Aguayo)
diretto da CANADA, 2011
Oramai riconosciuto e riconoscibile, diventato un marchio trendy, CANADA sigilla il ritorno dei Battles con il video del singolo che anticipa l’uscita dell’atteso secondo album, Glass Drop. La regia, di quello che all’epoca è ancora un trio, propone l’ormai consueta aggressione sensoriale, attraverso un florilegio di ironiche immagini che si richiamano a universi disparati – dall’iconografia pop (la pubblicità) al surrealismo (il gelato fallico) – battendo ancora il sentiero dell’inconscio attraverso un’interrogazione deviata del quotidiano. Ice Cream è il lavoro consapevole svolto su un’estetica oramai matura, il manifesto dell’ironia senza confini del collettivo: il gioco semantico tutto delegato alla fantasiosa successione di figure (il budget è evidentemente contenuto) suona come un compendio definito del mondo marca CANADA. Meno marginalizzata del solito, qui la performance va oltre il semplice tributo dovuto e, perfettamente contestualizzata, gioca anzi un ruolo incisivo (si pensi alle caotiche sovraimpressioni che dominano i passaggi chiave del brano e, in particolare, l’orgiastico finale). Il ruolo primario lo ricopre, in ogni caso, il montaggio, ancora una volta decisivo (e pare rapidissimo: realizzato in un solo giorno) nel rendere significativa la controversa tela di metafore che si va a tessere, tutte volte, in fondo, alla celebrazione del desiderio e dei suoi proverbiali, oscuri oggetti.
Miglior regia agli UK Music Video Awards.
# 12
The Greeks (Is Tropical)
diretto da Megaforce, 2012
Dopo una serie di lavori che ne avevano fatto la realtà emergente del videomaking europeo, The Greeks costituisce, per il collettivo parigino Megaforce, la definitiva consacrazione: viralizzato dalla rete, premiatissimo nelle competizioni annuali di settore, amato dagli addetti ai lavori.
Nel video il gioco innocente dei bambini simula le spietate gesta dei grandi, ma l’animazione postprodotta – in odore di manga giapponese, a cura del team Seven – anziché enfatizzare il divertimento e il sollazzo infantile, come ci si aspetterebbe, sottolinea il dato truce, facendo delle scorribande domestiche di questi monelli una riproduzione credibile della tragica violenza adulta (teste che saltano, corpi crivellati dai proiettili, sangue a litri, esplosioni, torture – tra finte guerriglie, minacce terroristiche e vendette malavitose -).
Ironico, intelligente, in bilico pericolosissimo tra provocazione e tenerezza, il video dei francesi è girato con delle semplici handycam, a metterne in evidenza il potenziale documentaristico, sottolineato anche dagli effetti sonori (le esplosioni) e dai dialoghi in presa diretta dei protagonisti, che accompagnano il brano: anche la scelta di questo registro strizza l’occhio al mondo adulto, esaltata com’è da alcuni dettagli folgoranti (i falsi schizzi di sangue sull’obiettivo sfiorano il sublime).
Girato nella banlieu parigina in soli due giorni, al crocicchio tra l’operazione concettuale, il leggiadro citazionismo (l’esplorazione dei generi) e il divertissment narrativo.
# 11
To Ü (Skrillex & Diplo ft. AlunaGeorge)
diretto da AG Rojas, 2015
TO Ü è la nuova tappa di un ritratto in itinere di un’America marginale, galleria di volti e corpi che AG Rojas porta avanti da sempre nel suo lavoro, non solo videomusicale. Partendo da una conoscenza approfondita dei contesti umani proposti, frutto di un lavoro accurato ed empatico di immersione ambientale, il regista lascia emergere frammenti di un mondo, minuscole parti che rendano l’idea di un tutto: interni impregnati di vita vera, oggetti che raccontano storie, fulminee incursioni su dettagli di precisione bruciante. Memore della lezione di Romain Gavras, con la complicità del fedele-da-sempre Michael Ragen alla direzione della fotografia, Rojas si muove tra documentario e sua aperta contraddizione, congelando l’umanità che rappresenta, ibernandola in una posa, lasciando che Aluna Francis abbozzi la performance, prevedendo come unico effetto speciale un fuoco d’artificio, azzardando persino scampoli di coreografia, quasi citazioni di una maniera all’interno di una struttura altrimenti aperta, consegnata ad associazioni libere, a mere suggestioni visive: TO Ü è, allora, innocenza, miseria, bellezza di esistenze in boccio in un settembre come un altro a Detroit. Un lavoro, dunque, apparentemente libero ed emotivo, ma in realtà strutturato, denso, ragionato, in cui la macchina da presa diventa davvero l’estensione dello sguardo del regista e l’esito finale la versione videomusicale della realtà.
# 10
Limit To Your Love (James Blake)
diretto da Martin De Thurah, 2010
È il primo dei tre video che Martin De Thurah gira per James Blake ed è testimonianza immediata di un feeling sconvolgente tra il musicista inglese e il regista danese: è come se la musica di Blake trovasse nelle immagini di De Thurah lo spazio ideale nel quale muoversi, in una sorta di reciproco riconoscimento. In Limit to your love, cover del pezzo di Feist, il regista, con il solito occhio indagatore, perlustra l’ambiente, restituisce dettagli tanto minimi quanto densi (il piccolo robot sui libri, la tastiera del musicista sulla scrivania, l’aspirapolvere appoggiato alla parete) e costruisce un contesto di normalità in cui ciò che avviene, però, non ha nulla di normale, in cui la creazione della musica (Blake che scrive) diventa la Creazione propriamente detta, quella di una dimensione altra, di un piccolo universo con proprie regole spazio-temporali che pulsa nelle stanze di questa casa: ecco allora che, nell’oscurità, tra riverberi di schermi accesi (la prodigiosa fotografia è di Kasper Tuxen), frutti gravitano come satelliti, descrivendo le loro orbite attorno ad un sole-mango; i tavoli vibrano, l’acqua trema, un mare inonda la stanza, persino il performer sembra muoversi in maniera anomala (i piedi in aria). Mentre un buco nero nel pavimento attira e inghiotte le cose, arnesi galleggiano nell’aria e una stalagmite di oggetti si eleva. Nel bicchiere, intanto, la bustina del té ha cominciato a galleggiare e il suo muoversi lento, a pelo d’acqua, rassembra quello di un’imbarcazione in mare (il cantato: «like a map with no ocean»). Tutto sembra rinchiuso tra queste pareti, assurdo pensare alla possibilità di un mondo esterno.
Al solito è difficile trovare una chiave esaustiva, De Thurah propone i suoi percorsi personali, li dissemina di interrogativi e, con un equilibrio maestoso tra immagini e musica, firma un video di fascino ipnotico che riesce a condensare meravigliosamente molti dei suoi motivi.
# 9
No Reason (Bonobo feat. Nick Murphy)
diretto da Oscar Hudson, 2017
Rivendicare un metodo come marca poetica: Oscar Hudson lo sta facendo con una determinazione e una chiarezza di idee encomiabile (ne riparlo più in basso). Zbigniew Rybczyński nel cuore, ma ripensato e tradotto in immagini con effetti fisici creati in camera. Nessun intervento in CGI: il tunnel spaziotemporale nel quale precipita l’hikikomori è composto da un’infilata di set realizzati in differenti scale. È una nuova forma di integralismo, un manifesto etico e una modalità di produzione sfidante che si traducono in un video in cui messa in scena e narrazione scorrono nel medesimo alveo.
Qui Oscar Hudson espone la lavorazione del video.
Qui il dietro le quinte.
# 8
Afterlife (Arcade Fire)
diretto da Spike Jonze, 2013
L’esibizione degli Arcade Fire agli You Tube Awards 2013 diventa un video girato in diretta: il tentativo, la possibilità di fallire, il processo invece che il risultato sono elementi che attraggono da sempre Spike Jonze. Di Afterlife è protagonista Greta Gerwig, che, dopo l’addio del suo uomo, ritrova pian piano la gioia di vivere: attraversando una complessa scenografia – dall’interno di un appartamento, sbucando in un bosco onirico – l’attrice, ballando, incrocia la performance della band e, quasi giocando con la presa di coscienza graduale di essere al centro di una macchina spettacolare, chiude il video con una danza di gruppo di fronte al pubblico. Non è solo un exploit tecnco quello che mette in atto Spike Jonze, è un nuovo capitolo di un’esaltante parabola creativa; perché quell’esibizione diventa, di fatto, il video promozionale del brano (quello ufficiale di Emily Kai Bock, esce un paio di settimane dopo), sfruttando il canale privilegiato di diffusione della videomusica del nostro tempo, You Tube, all’interno di una manifestazione organizzata da You Tube medesima.
Esperimento bissato nel 2019 con Woman (Karen O e Danger Mouse): in questo caso Spike è dietro la camera e lo gira in piano-sequenza.
Passano gli anni, ma Jonze non smette di pensare al linguaggio breve come continuo salto in avanti.
# 7
Oblivion (Grimes)
diretto da Emily Kai Bock e Claire Boucher, 2012
Emily Kai Bock presenta una performance dal vero, in mezzo a un pubblico virile di alcuni eventi sportivi (football, motocross acrobatico etc), intervallata da una serie di inserti in cui Grimes/Claire Boucher è circondata da aitanti ragazzi che fanno da cornice nella spudorata location (gli spogliatoi). In ambiti in cui la mascolinità cameratesca, facendo mostra di sé, viene di fatto reificata, la cantante propone, aerea e vivace, il suo pezzo, catalizzando su di sé l’attenzione: governando l’azione, l’artista pone, nel loro stesso elemento così profanato, le figure maschili in secondo piano. Potente riflessione sull’interpretazione dei ruoli sessuali e sul loro sovvertimento: i maschi dominatori dei contesti; le ragazze, solo cheerleader, ai margini degli eventi.
Il #metoo prima del #metoo.
# 6
Time to dance (The Shoes)
diretto da Daniel Wolfe, 2012
Daniel Wolfe distilla sempre di più le sue uscite, ma ogni volta che sforna un lavoro è un piccolo terremoto. Time to dance è un’intensa “hypster killer story”, interpretata da Jake Gyllenhaal, una cupa ed emozionante narrazione ambientata nel distretto londinese di Dalston, in cui si mescolano i livelli temporali e il lato oscuro di una mente prende il dominio. Un clip che ha convinto tutti, persino Bret Easton Ellis che ha rivisto nelle efferate gesta del protagonista quelle del suo american psycho Patrick Bateman (Wolfe ha comunque affermato che il principale riferimento per la clip è stato Graduation Day, uno slasher movie del 1981). Wolfe lascia fluire le immagini incanalandole in una narrazione, ma consegnandole, nello stesso tempo, a una simbiosi miracolosa con la traccia musicale. Il coinvolgimento emotivo scorre su due piani, ma si vive come esperienza unica. Lo attesta il repeat.
# 5
Borders (M.I.A.)
diretto da M.I.A., 2015
M.I.A. non si nasconde: inneggia, lancia invettive, commenta situazioni che dicono di violenza, sfruttamento, povertà, disparità. E non ha remore nell’usare la sua arte e la sua visibilità per darvi risonanza: la sua musica ne parla, le sue manifestazioni pubbliche sono improntate alla denuncia e alla rivendicazione. E così i suoi video. Perché di fronte al chiasso indistinto dell’aggressiva comunicazione contemporanea, per farsi ascoltare bisogna toccare la società nei punti sensibili, aizzare i suoi sensi di colpa, arrivare a imbarazzarla, costringerla a prendere posizione e a non riparare nella comoda, liberatoria, supina (perché tombale) approvazione automatica.
Per questo Maya Arulpragasam non ha bisogno di dire che è anch’essa una rifugiata per legittimare la sontuosa messa in scena di Borders e l’astrazione estetica che opera sul reale; non deve accampare giustificazioni per questa grandiosa, toccante monumentalizzazione delle immagini-effigie di un dramma contemporaneo: le scene che la routine dell’informazione, rendendole banalmente emblematiche, ha svuotato di senso (la folla di disperati che vuole passare un confine, i barconi strapieni, le scogliere popolate di naufraghi), vengono plasmate in forma disturbante perché suggestiva. Il corto circuito tra l’accattivante composizione figurativa e la tragicità degli assunti rende instabile la prospettiva di ogni spettatore, fosse anche il più corretto e solidale. Lo inducono, finalmente, a riconsiderare la questione, a porvi mente: Borders chiamando in causa il gusto del pubblico, le sue convinzioni, le sue aspettative, la sua etica, ne scardina l’indifferenza o la pacata rassegnazione.
Egos
What’s up with that?
Your values
What’s up with that?
Your beliefs
What’s up with that?
È inevitabile (e va bene così) che tanti abbiano detestato questo clip, che ci siano state prese di posizione radicali, che si sia parlato di sfruttamento e imbellettamento di una catastrofe sociale: perché – come insegnano i lavori del sodale Romain Gavras (che ovviamente dice la sua : «best video of the year») – non si accompagna la rappresentazione con sottotesti esplicativi, giustificazioni incorporate, rassicurazioni travestite: che sia lo spettatore a elaborare ciò che sta guardando, che venga lasciato solo, senza bussola. Che trovi la sua strada, quale essa sia: questo video, come tanta arte contemporanea, non teme giudizi esterni, anzi, li sollecita perché vuole essere oggetto di discussione e riflessione.
E allora Borders è utopia e lotta senza contraddizioni, perché le vere contraddizioni vivono nel mondo ipocrita che ha ridotto a normalità quelle sciagure che M.I.A. ritraduce in quadri coreografici (Life, la scritta umana sulle inferriate), ristagnano in quel capitalismo feroce che il dramma lo sfrutta sul serio (un sovversivo Fly Pirates si legge sulla sua t-shirt, parodia polemica dello slogan Fly Emirates).
M.I.A. lancia con un sorriso uno schizzo d’acqua verso la camera e cammina da star sulle onde (circondata da soli uomini, come in un iconic video qualunque), solo per ricordarci che quello è il mare in cui, quando Borders non risuona, annegano a migliaia.
# 4
Look What You Made Me Do (Taylor Swift)
diretto da Joseph Kahn, 2017
Il video mainstream del decennio, con Toxic l’apice del regista. Non solo condensato della dottrina Kahn (l’artista sta dicendo: ascoltalo; l’artista si mostra: guardalo), ma anche esempio fulgido di un’intelligenza registica unica nel panorama videomusicale: molteplicità di ambientazioni, set, narrazioni per quanti sono i mood, le sezioni e le atmosfere del brano musicale (non puoi mollare la visione, perché niente si ripeterà); continuità disarmante (un’idea a sequenza); performance strepitosa perché/benché studiatissima in ogni secondo; intrico di sottotesti che rendono denso il tessuto del clip (se si decide di concentrarsi sui dettagli il loop è garantito), ma non inficiano in alcun modo la fruibilità delle immagini: queste restano attaccate alla canzone come una seconda pelle (aspetto sonoro e visivo sono inscindibili: ascolti le immagini, vedi la musica); movimento e ritmo senza chiassose evoluzioni della camera (dop Darius Khondji), anzi mantenendo un registro quasi classico e moltiplicando i punti macchina. Perché, ovviamente, nessuno come JK sa che il montaggio è tutto: e qui c’è il miglior montaggio video della decade.
Da guardare e riguardare. E da studiare: la Torah del video pop.
Un lungo approfondimento sul video si trova qui.
Del sodalizio Swift-Kahn, uno dei più importanti degli anni Dieci, non può non menzionarsi Blank Space con cui il regista segna il suo massimo successo in termini di view (vi era associata la Blank Space Experience app, una delle prime esperienze-video a 360°).
# 3
Simple Math (Manchester Orchestra)
diretto da DANIELS, 2011
Tra i capolavori del terzo millennio in videomusica (misconosciuto, si guardi il ridicolo numero di visualizzazioni), il video si muove su quattro linee narrative: su quella del presente, l’unica reale, se ne incardinano tre immaginative; due di esse si muovono su diversi livelli di passato e fanno riferimento a fatti reali deformati dal delirio (delirio che tracima, comunque, in ogni grado del racconto), la terza risulta di integrale immaginazione. Al di là della sua complessità strutturale, – assecondata da un uso della tecnologia totalmente asservito alle logiche drammaturgiche (cfr. Gondry) – Simple Math è straordinario anche per come risolve il difficile rapporto tra narrazione e performance, riuscendo a far convivere in sé i gradi del racconto e della prestazione musicale con rara naturalezza: il racconto si muove dunque sull’onda del brano, raggiungendo i suoi picchi in perfetta coincidenza con quelli musicali; per tutta la sua durata il pezzo viene frammentariamente cantato dai protagonisti e suonato dai musicisti in microsequenze, ma questi motivi extradiegetici, lungi dall’apparire come delle parentesi o degli “a parte”, sono mimetizzati nella struttura e suonano miracolosamente coerenti con quelli narrativi. Inoltre la costruzione complessa e rigorosa delle immagini, mantenendo la storia sempre massimamente comprensibile, non va mai a scapito dell’aspetto emotivo, anzi, si modella in funzione di esso.
# 2
Bad Girls (M.I.A.)
diretto da Romain Gavras, 2012
Se di un pop video si tratta – e senza dubbio ne ha tutti gli elementi, prevedendo, come fa, anche un’adesione sostanzialmente rispettosa ai codici – ne è anche una sottile rilettura alla maniera del regista: c’è dunque sì M.I.A. che canta e balla, c’è sì una coreografia – esaltante, quasi bollywoodiana, col un corteo che avanza -, ma il tutto viene messo in scena in uno quei contesti congeniali a Gavras, con le immagini che celebrano il consueto corto circuito tra vero e ricostruzione. Con quel sonoro che si sovrappone alla traccia musicale, con i ralenti emozionali, il montaggio che polverizza in frammenti l’umanità che abita il luogo (i volti della folla sono schegge che si conficcano nell’occhio), complice il direttore della fotografia di fiducia, amico di una vita, André Chémétoff.
Via dalla pazza folla occidentale, dai contesti urbanistici tipici delle esibizioni hip hop in video (nessuna metropoli, nessun grattacielo), Gavras gira a Ouarzazate, in Marocco, lasciando che M.I.A. (ripresa strategicamente di giorno – le immagini della gara di auto -, al tramonto – le performance tra i falò – e di notte – nel parcheggio -), in maniera quasi ortodossa, si rivolga alla camera, riproponga gestualità e movenze che, nel contesto alternativo nel quale sono calate, acquistano nuance del tutto inedite.
Bad Girls è un video da revisione compulsiva che pennella provocatoriamente un’idea altra del mondo arabo (con le donne pronte a imbracciare un mitra come a mettersi al volante per questo mirabolante ghost-riding – spettatori gli uomini – nel deserto africano) e che consegna Gavras al successo universale (milioni di visualizzazioni su You Tube, pioggia di premi e riconoscimento quale miglior regista agli MTV Awards) celebrando la sua inarrivabile capacità di costruire atmosfere, di cesellare il clip plasmandolo sul brano musicale, di rendere le immagini un tutto armonico con la colonna sonora, di scuotere l’attenzione di chi guarda con idee folgoranti, di coinvolgere lo spettatore, trascinarlo dentro una sfida, inebriarlo, commuoverlo: le auto che sfrecciano diventano poesia in movimento, immagini potenti, epica contemporanea. Un instant classic in cui la consueta chiave politica (si comincia dai titoli in arabo) è mimetizzata in un congegno spettacolare perfetto
Qual è il miglior video possibile? Quello che si lega in maniera così indissolubile alla canzone da rendere impossibile scinderne l’ascolto dalla rievocazione delle immagini (Thriller di Michael Jackson diretto da Landis, ad esempio). E quello che non ci si stanca mai di rivedere.
Qui il making of.
# 1
Gosh (Jamie xx)
diretto da Romain Gavras
fotografia: Mattias Rudh
montaggio: Walter Mauriot
con: Hassan Kone
produzione: Iconoclast
Francia, 2016
Gosh per Jamie XX Gavras lo gira a Tianducheng in Cina, una replica di Parigi – con tanto di Torre Eiffel in scala –, oramai città fantasma. Il giovane albino protagonista vive un’esperienza virtuale (per questo i suoi occhi si muovono – la prima scena lo coglie in un club, circondato da avventori con visori applicati, campioni evidenti di un’umanità isolata nel proprio mondo artificinale -) in cui diventa il centro attrattivo di una folla di ragazzi che, usciti dai loro appartamenti, lo raggiungono e lo osannano come un dio (richiamo al testo della canzone). Attratto e turbato da questa orda di follower indistinguibili, il protagonista è forse preda di un bad trip che annuncia il futuro? Le interpretazioni sono molteplici, ma, come al solito, il regista si sottrae al dibattito. Un nuovo inquietante enigma sul presente, una magistrale, potentissima avventura simbolica che rende superbamente una traccia musicale che non sapremo più scindere da queste immagini. Un clip fortemente voluto da Romain Gavras (elemento da non sottovalutare) , circostanza che mette in mostra come l’autorità del videomaker possa stravolgere l’equilibrio di forze (Jamie xx consegna una diversa versione del brano che diventa la colonna sonora delle immagini, laddove le immagini non costituiscono un suo mero corredo visivo). Romain Gavras rompe insomma ogni protocollo e gira un video d’arte puro – perché atemporale, prescindente da qualsiasi intento promozionale – di un brano uscito da un anno e già “clippizzato” (la canzone aveva già un suo bellissimo official video diretto da Erik Wernquist). E, in tempi di vacche magre, ottiene un milione di dollari dalla Apple per farlo.
Che ci si creda o no, non si è fatto ricorso a grafica computerizzata né ad alcun effetto speciale per le riprese dei ragazzi alle finestre: Romain Gavras lavora così.
E quel tweet di Romanek è una specie di bacio accademico.
Behind the scenes.
REGISTA DEL DECENNIO
Romain Gavras
Tre video nel decennio (sono nove in carriera), ma quanti bastano per non avere rivali. Gavras nasce negli Zero, ma gli anni Dieci lo confermano il videomaker più influente del nuovo millennio: se il rifiuto di scenografie artefatte, l’immersione nella realtà, il catturarne frammenti e dettagli significativi facendone specchi deformanti e rivelatorie chiavi di lettura dell’attualità sono diventate caratteri della videomusica tutta, lo dobbiamo a lui. Ai baracconi glamour delle icone del pop, ai trick tecnologici e agli arzigogoli concettuali che avevano tenuto banco nei 90, Gavras ha continuato a opporre il suo videomaking antagonista, nutrito di iconografie alternative ritagliate da un’umanità marginale. Oltre le polemiche, oltre le censure, i suoi promo sono veri eventi. L’est(-)etica del videoclip dell’era di YouTube l’ha plasmata lui. Qualche esempio: il docudrama di Vincent Haycock e AG Rojas nasce dichiaratamente da lì. The Blaze non ne parliamo nemmeno. Melina Matsoukas lo plagia senza pudore. Gavras quella volta s’incazza, ma dovrebbe saperlo che essere copiati è il destino degli innovatori.
No Church in the Wild lo mettiamo qui che un intero podio sembrava troppo. E poi la regola era, in top 50, di mettere 50 registi diversi. Sono 49: una sola trasgressione. Per lui, il re.
30 REGISTI PER GLI ANNI DIECI
In un decennio che vede la definitiva consacrazione o la piena conferma di nomi nati nella decade precedente (oltre a Romain Gavras: Megaforce, Nabil, Martin De Thurah, Daniel Wolfe, Anthony Mandler eccetera – ne sia testimonianza la top video -) mi concentro soltanto sulle firme germogliate negli anni 10, menzionando video diversi da quelli già segnalati. Al podio seguono gli altri in ordine alfabetico.
# 1
DANIELS
Coscienti del passato (Gondry, Jonze), ma senza esserne succubi, sono stati capaci di riprocessarlo secondo un credo originale. Poetica personale, sperimentazione tecnica, inventiva sfrenata, topoi narrativi peculiari si sono riversati in un corpus video esaltante e nel loro primo lungometraggio Swiss Army Man.
Underwear (FM Belfast), 2010
My Machines (Battles), 2011
Houdini (Foster The People), 2012
Turn Down For What (DJ Snake & Lil Jon), 2014
Tongues (Joywave), 2014
# 2
Oscar Hudson
Stoffa del fuoriclasse, emulo evidente di Zbigniew Rybczyński (Choreograph, Lift), come Michel Gondry (da noi Virgilio Villoresi e Uolli) vanta un’etica solidissima che non gli fa mai scindere la sostanza di ciò che rappresenta dalla tecnica prescelta per rappresentarlo. Rifiutando che la postproduzione, per pure ragioni estetiche, snaturi l’impostazione teorica di partenza, Hudson realizza video che, anche quando performativi o narrativi, presuppongono sempre un approccio concettuale. Il risultato tocca, nello stesso modo, cuore e cervello.
Choreograph (Gilligan Moss), 2015
Cerimony (Gilligan Moss), 2015
The Mess She Made (Darwin Deez), 2015
Lift (Radiohead), 2017
Ottolenghi (Loyle Carner Ft. Jordan Rakei), 2018
# 3
CANADA
Il collettivo catalano CANADA (dopo l’abbandono di Luis Cerveró, oggi sono Lope Serrano e Nicolás Méndez, benedicenti i produttori Alba Barneda e Óscar Romagosa), non può mancare sul podio, soprattutto per l’indiscutibile influenza che ha avuto sul videomaking del decennio: nessun’altra nuova firma può vantare lo stesso impatto. Sia registi che produttori, i nostri hanno lanciato un marchio, coltivato l’idea inedita di un collettivo aperto e messo a punto un’estetica inconfondibile. Il loro è un universo visionario che attinge a immaginari passati (dal surrealismo alla Nouvelle Vague) e ai registi iconoclasti anni 70 (Alejandro Jodorowsky, Walerian Borowczyk, Ken Russell), che sperimenta sulle modalità di messa in scena, che ammicca al softcore (e quasi cerca la censura), che sa azzardare simmetrie imprevedibili e giocare su struttura, forme e generi videomusicali. Copiatissimi, sono rimasti i migliori nel fare ciò che fanno, pur nella inevitabile – e intuibile da subito – autoindulgenza manierista (partiti con microproduzioni locali, nel 2012 sono già un colosso e New Lands è il video più costoso dell’anno).
Bombay (El Guincho), 2010
Invisible Light (Scissor Sisters), 2010
Holy Ghost (White Lies), 2011
All in White (The Vaccines), 2011
New Lands (Justice), 2012
BRTHR
Wasted My Time (I/O), 2013
Youth (Ben Khan), 2014
In the Night (The Weeknd), 2016
Pedro Martín-Calero
Blanc (Territoire), 2013
Garden (Hinds), 2015
Warts (Hinds), 2016
Ninian Doff
What’ll It Take (Graham Coxon), 2012
Figure It Out (Royal Blood), 2014
Sometimes I Feel So Deserted (The Chemical Brothers), 2015
Fleur & ManuMurder Weapon (Tricky), 2010
Gunshot (Lykke Li), 2014
Ivory (Movement), 2014
Greg et Lio
Come (Jain), 2015
Makeba (Jain), 2016
Basique (OrelSan), 2017
Vincent Haycock
Sweet Nothing (Calvin Harris feat. Florence Welch), 2012
Shades of Blue (Kelsey Lu), 2018
Will We Talk? (Sam Fender), 2019
Helmi
You (Etienne de Crécy with Madeline Follin), 2015
Move Together (Somewhere Else feat. Majid Jordan), 2016
Girls (Rita Ora feat. Cardi B, Bebe Rexha, Charli XCX), 2018
Andrew Thomas Huang
Sunlight (The One AM Radio), 2011
Before Your Very Eyes (Atoms For Peace), 2013
Slip Away (Perfume Genius), 2017
Jesse Kanda
Water Me (FKA Twigs), 2013
mouth mantra (Björk), 2015
Desafío (Arca), 2017
Frank Lebon
Delta (Mount Kimbie), 2017
Sundress (A$AP Rocky), 2018
Can’t Believe The Way We Flow (James Blake), 2019
Yoann Lemoine
Back To December (Taylor Swift), 2011
Jewels (Black Atlass), 2014
Sign of the Times (Harry Styles), 2017
Pablo Maestres
Big Cat (Wild Beasts), 2016
Coeur Croisé (Polo & Pan), 2017
You and Me (Barns Courtney), 2019
Aoife McArdle
Seraphim (Simian Mobile Disco), 2012
Red Dust (James Vincent McMorrow), 2014
Loop De Li (Bryan Ferry), 2014
Hiro Murai
Cheerleader (St Vincent), 2012
Do You (Spoon), 2014
Telegraph Ave (Childish Gambino), 2014
Dexter Navy
L$D (LOVE x $EX x DREAMS) (A$AP Rocky), 2015 *
Money Man / Put That On My Set (A$AP Mob), 2016 *
Praise The Lord (Da Shine) (A$AP Rocky feat. Skepta), 2018
* codiretto da A$AP Rocky
Ian Pons Jewell
La La La (Naughty Boy), 2013
One Day (Paolo Nutini), 2014
Bad Blood (NAO), 2015
Roy Raz
Lonely Lisa (Mylène Farmer), 2011
I Won’t Let Go (Monarchy), 2013
L’effet de serre (Shy’m), 2014
AG Rojas
Lofticries (Purity Ring), 2012
Sky Full of Songs (Florence + The Machine), 2018
Naeem (Bon Iver), 2019
Henry Scholfield
Tous Les Mêmes (Stromae), 2013
Fire (Phonat), 2015
Vossi Bop (STORMZY), 2019
Isaiah Seret
Happy Pills (Norah Jones), 2012
You know what I mean (Cults), 2012
Für Hildegard von Bingen (Devendra Banhart), 2013
Grant Singer
Underbart (Little Dragon), 2014
Dayzed Inn Daydreams (Ariel Pink), 2015
Don’t Know Why (Slowdive), 2017
Anton Tammi
Hunger (Pekko), 2016
All Your Words (JIL), 2017
Graveyard (Halsey), 2019
The Blaze
Virile (The Blaze), 2016
Heaven (The Blaze), 2018
Queens (The Blaze), 2018
Colin Tilley
Confident (Justin Bieber feat. Chance The Rapper), 2014
Alright (Kendrick Lamar), 2015
Wolves (Selena Gomez feat. Marshmello), 2017
Us
Burning Beaches (Dels feat. Rosie Lowe), 2014
Over and Over and Over (Jack White), 2018
Movement (Hozier), 2018
Virgilio Villoresi
Pryntyl (Vinicio Capossela), 2011
Submarine Test January 1967 (John Mayer), 2013
Chiuso dall’interno (Dente), 2014
David Wilson
We Exist (Arcade Fire), 2014
Let It Happen (Tame Impala), 2015
Sparkling Rain (Dita Von Teese), 2018
Young Replicant
Fineshrine (Purity Ring), 2012
First Fires (Bonobo feat. Grey Reverend), 2013
3WW (Alt-J), 2017
Prima parte
Seconda parte
Terza parte