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VIDEO DELL’ANNO 2024 – TUTTE LE CATEGORIE

Dodici mesi di videomusica divisi in due parti. A questo giro tutte le categorie, seguirà la TOP 20.
In un’epoca di frammentazione del linguaggio – tra pillole, reel, story –, stante la rinnovata esigenza di una riconoscibilità immediata, nei video non può che trionfare la performance, con un concettuale meno rilevante che in passato e, soprattutto, per le stesse ragioni, un narrativo in evidente affanno. L’ho già scritto e lo ribadisco: le logiche imperanti sono restaurative di una visione ottantesca di un clip che pone al centro di tutto la videostar, un regno che ha tutta l’aria di poter durare lustri.

PERFORMANCE

Disease (Lady Gaga)
diretto da Tanu Muino
L’incontro fatale e inevitabile tra Muino e Gaga riporta sul piatto la Lady più massimalista e baraccona, quella che ha fatto la storia recente del mezzo e che latitava da un po’. Una e trina, in odor di horror (esistenziale), l’artista affronta i suoi fantasmi interiori in un clip ossessivo, oscuro, zeppo di idee.
Muino anche per Illusion in cui immagina Dua Lipa al centro di una coreografia acquatica che, tra nuoto sincronizzato e geometrie in movimento, sembra una nuova citazione dei quadri viventi di Bubsy Berkeley. Un video, ambientato nella Piscina Municipal del Montjuïc a Barcelona, che – conoscendo la coscienza storica di Dua Lipa – attualizza consapevolmente due clip di Kylie Minogue: Slow di Baillie Walsh (stessa location e situazione) e All The Lovers di Joseph Kahn (l’outfit del corpo di ballo, la montagna umana).
Chiudo con Muino segnalando Can’t Get Enough (Jennifer Lopez feat. Latto), dimostrazione plastica del perché la Nostra sia diventata la griffe più richiesta sul fronte performativo-celebrativo: guardi questo video e il modo in cui riesce, con un’incessante varietà di soluzioni (ancora Joseph Kahn inside) a glorificare la presenza scenica di Jennifer Lopez.

Doctor (Work It Out) (Pharrell Williams, Miley Cyrus)
diretto da Jacob Bixenman
Jacob Bixenman ha iniziato come modello, affiancando da subito, a questa attività, quella di fotografo e regista: da indossatore ha prodotto autoscatti sincerissimi, documentando (anche su un Instagram divenuto di culto) il dietro le quinte dei suoi shooting o degli eventi ai quali presenziava – dai defilé alle serate di gala –, immortalando, nella stessa logica di autenticità, anche le celebrità con le quali veniva in contatto. Con lo stesso sguardo girava cortometraggi intimisti, che restituivano, delle situazioni reali proposte, un’atmosfera o degli stati d’animo. Nell’ultimo periodo si è occupato della direzione creativa dell’album Endless Summer Vacation di Miley Cyrus (suoi i video e l’artwork di copertina) incentrandola, con sana ossessione, sul corpo della star. Doctor (Work It Out), collaborazione dell’americana con Pharrell Williams, conferma la politica di concentrazione sulla star: a presenziare, infatti, è la sola Miley (che basta e avanza) in un set nudissimo, con reminiscenze di Single Ladies di Beyoncé (e quindi della sua radice Lucky Star di Madonna, contaminata da Bob Fosse), un paio di cambi d’abito e un’improvvisa nota di colore sullo sfondo.

redrum (21 Savage)
diretto da Danny Seth
È già arrivato il momento di celebrare un maestro, Che è Dexter Navy, qui ampiamente (e molto rispettosamente) citato da Danny Seth: le soluzioni tecniche e le idee visive sono quelle, come le circostanze della performance e l’onirismo di base, che ricordano i video di Navy per il sodale A$ap Rocky. Con meno pensiero e l’occhio rivolto soprattutto alla riuscita estetica dei quadri. Bravo, 7+.
Una versione più artigianale e retrò dello stesso immaginario potrebbe essere questa (dirige Oliver Jennings).

Twin Sisters (Ghetts ft Skrapz)
diretto da Geerten Harmens, Olivier Bink
Set minimale, performance frontale, tutto secondo i canoni: ma la regia dei quadri è di serie A, l’eleganza delle soluzioni – al limite del fashion movie – suona coerente con i toni e i contenuti del brano musicale. L’equilibrio impressiona: non solo l’uso dell’effettistica è assai funzionale, ma l’evoluzione del concetto e la chiusura del video risultano molto ben gestiti.

Color De Dolor (Angélica Garcia)
diretto da Sergi Castellà
Una pluralità di registri visivi per una performance post-mortem suggestiva, in cui il tema funereo non è mai banalmente ripiegato a soluzione orrorifica, ma lo si riconverte in sabba coreografico che ha sì i toni dell’onirismo, ma anche un’eleganza niente affatto scontata.

Bet (Mette)
diretto da C Prinz
A riprova del suo talento performativo, un tour de force di Mette che, sulla scorta di una CGI molto inventiva e di una camera mobile in apparente unico movimento, mette a confronto due versioni di se stessa. Il risultato rimane stupefacente soprattutto per la resa dell’effettistica, perché, al di là del virtuosismo tecnico, il lavoro si confronta con un’unica idea.

Vitamina Life (Tripolare)
diretto da Simone Bozzelli
Bozzelli, il regista di Patagonia, è un talento e quando si dedica alla videomusica lascia sempre il segno: qui un saggio poetico su corpo, affermazione di sé e trasformazione. Psichedelico, rarefatto, gaudente: l’epifania del Sé, incoronarsi, farsi auto-re. Vincitore di Vedomusica 2024 al Pesaro FF. Da Bozzelli anche GET UP BITCH! per Victoria + Anitta che ribadisce una poetica forte: centralità dei corpi, fluidità come modo d’essere, desiderio come ossessione scopica. Qui con una ricercata volgarità pop che tritura cliché senza irriderli.

Training Season (Dua Lipa)
diretto da Vincent Haycock
Abbandonando il suo scabro realismo, Haycock mette in scena, in una spirale visionaria, il complicato rapporto dell’artista con il sesso opposto. Circondata da uomini che la idolatrano, ne sono intimoriti e mai la capiscono, Dua Lipa, al tavolino di un bar per l’ennesimo appuntamento, non vuole più perdere tempo in audizioni che finiscono in nulla di fatto («Parla direttamente alla mia anima/ la stagione degli allenamenti è finita», tanto per esser chiari).

Di seguito alcuni performativi semplici dove però lo stile, il concetto, l’uso delle ambientazioni contano tantissimo e fanno la differenza:
Lucky (Erika De Casier)
diretto da Jesse May Fisher

Feel My Face (Korby)
diretto da Elliott Gonzo

Reign (Bob Vylan)
diretto da Taz Tron Delix

Falling Deep (Will Young)
diretto da Samuel Douek

Hey Babe, I’m A Mess, I’m Sorry (JC Stewart)
diretto da Jackson Ducasse

Forget About Us (Perrie)
diretto da Jake Nava

Ancestors (Lubiana)
diretto da Cécile Chabert

Slow Down (Miso Extra)
diretto da Claryn Chong

Endlessly (CamelPhat & Nadia Ali)
diretto da David Vu

Spite (Omar Apollo)
diretto da David Heofs

NARRATIVO

Loneliness (Pet Shop Boys)
diretto da Alasdair McLellan
Nella Sheffield anni 90 la storia di una omosessualità vissuta nell’ombra: un gruppo di amici, il lavoro in fabbrica, una relazione etero di copertura, incontri galeotti nei cessi, convegni clandestini, sguardi sfuggenti e omertà. Taglio veristico da cinema sociale made in UK ma attraversato da improvvisi lampi in elegante bianco e nero che estetizzano volti, corpi e pose. I Pet Shop Boys, in lip sync, intanto cantano: «Chi è qui per aiutarti a voltare le spalle alla solitudine?». Una splendida narrazione che contraddice nello stile il suo approccio classico e si propone come esercizio post nello stesso tempo intelligente ed emozionante.

The Rhythm Changed (Thomas De Pourquery)
diretto da Ludovic Gontrand
A metà strada tra narrazione, concetto e coreografia, una sorta di installazione che racconta di un convegno notturno in un pub. Le dinamiche relazionali alternano normalità e bizzarria, comportamenti abituali e dissonanti, convivialità e conflitto, danza e bagordi, come se le presenze nel luogo (gente vera della provincia rurale francese) fossero allo stesso tempo dei prototipi, delle persone reali, dei fantasmi.

Circles (The Snuts)
diretto da Michael Sherrington
Il taxista, accompagnando una coppia, rievoca la sua vita. Da un posto all’altro commozione, rimpianto, rabbia. Ben costruita (sulla struttura ritmica del brano), una narrazione limpida, classicissima, forse non così originale, ma ben realizzata e, soprattutto, oggi sempre più rara.

Silverlines (Damiano David)
diretto da Nono + Rodrigo
Damiano David lancia da solista un clip in continuità con la politica dei Måneskin che, non trascurando il meglio del videomaking nazionale, lo alterna da sempre con griffe internazionali mai scontate (Rei Nadal, Bedroom). La scelta di Nono + Rodrigo è quella di un marchio lanciatissimo, che si muove tra le migliori case di produzione (Iconoclast e Partizan, che qui produce) e che apparecchia un suggestivo set in cui il debutto sul palco di Damiano si muove su un piano immaginativo, come infilata di splendidi quadri onirici che preludono (il finale) all’enigma del percorso futuro (da solista?). Un ottimo inizio bissato dalla fantasia musical di Born With a Broken Heart diretta da Aerin Moreno.
Da Nono + Rodrigo anche Mangata per Judeline: splendida realizzazione, orrore e onirismo a palla e coerenti con il brano, narrazione forse velleitaria ma che ha una sua progressione coinvolgente. Vibes confermate anche nel successivo Inri.

Little Foot Big Foot (Childish Gambino)
diretto da Hiro Murai
Un ritorno che pesa quello di Hiro Murai al videoclip che qui propone due delle sue costanti: la danza come significato in movimento e la concentrazione dell’azione in uno spazio circoscritto (si clicchino il video-loop Dis Generation per A Tribe Called Quest e This Is America, ancora per Gambino). Anni Trenta, Grande Depressione, un locale malfamato, un trio di ballerini che si esibisce: in un circostanziato bianco e nero, Murai mette in scena l’ennesimo racconto sghembo in cui il tono iniziale tara l’atmosfera solo per essere smentito, poiché, come da prassi, l’umorismo premette al macabro.
Da Gambino anche Lithonia (che pezzo) che gioca su performance e montaggio e si trasforma prima in situazione di paradossale fatica (c’è Alex Wolff alla batteria, tra parentesi) poi, alla maniera in cui Gambino ci ha abituati, vira in horror in una coda imprevedibile che ci fa rileggere l’intero video in termini narrativi. Dirige Jack Begert.

Your Dad’s Car (The Rills)
diretto da Ace Bowerman
Ace Bowerman, col marito William, ha fondato nel 2019 la WFB Live, un’azienda che ha creato spettacoli musicali (itineranti e non) e concepito design, scenografie e palinsesti per cerimonie e premiazioni (anche sportive) in tutto il mondo. I due in breve tempo hanno messo insieme un catalogo di collaborazioni artistiche di grande prestigio (Post Malone, Kylie Minogue, Ed Sheeran) divenendo uno dei marchi più prestigiosi del settore. Se William viene direttamente dalla musica – come turnista e arrangiatore prima, e come direttore musicale poi (al seguito del tour promozionale del primo album di Dua Lipa) –, Ace si definisce una direttrice creativa e una performer designer (suo il concept del Born Pink World Tour delle Blackpink, quasi due milioni di spettatori in un anno) che si cimenta regolarmente anche come regista di video. Scommettendo sulla indie band The Rills, la regista concepisce un set claustrofobico in cui il frontman Mitchell Spencer è rinchiuso nell’abitacolo di un’automobile che sprofonda nell’acqua: non ci sono coordinate alle quali agganciare la narrazione, tutto si concentra sulla performance disperata dell’artista che alla fine si lascia andare e si perde negli abissi. L’unità di luogo è una caratteristica anche del precedente di Bowerman per la band, I Don’t Wanna Be in cui, nel tono di una commedia, la regista ironizza sulla tendenza dei maschi a pomparsi i muscoli, immaginando il trio alle prese con gli attrezzi di una palestra scalcinata, in una sessione ginnica parossistica e assai divertente. La chiosa è questa

Floating Parade (Michael Kiwanuka)
diretto da Phillip Youmans
Youmans è un grande narratore per immagini e, di nuovo a fianco di Kiwanuka, immagina una pacifica invasione aliena impregnata di umori hippie, ammicchi alla controcultura e al cinema dell’epoca.

CONCETTUALE

Woman’s World (Katy Perry)
diretto da Charlotte Rutherford
Katy Perry pubblica il singolo che precede l’album 143 in uscita e necessita di un lancio col botto. Il pezzo è moscio? Non importa, il traino è un video provocatorio. Del resto Katy è una che non ha mai fatto cose a caso nel campo, si guardi il suo splendente catalogo, una videografia da manuale tempestata di griffe prestigiose, tutte consultate al momento giusto: astri nascenti (e poi esplosi: Yoann Lemoine, Alan Ferguson, Tanu Muino), venerabili maestri (Joseph Kahn, Floria Sigismondi, Dave Meyers), firme à la page (Ben Mor, Joel Kefali, Tony T. Datis), nomi di culto (e coraggiosi per il mainstream come Dent de Cuir). Senza contare il sodalizio con Motion Theory e Mathew Cullen (qualche miliardo di view). A questo giro bussa all’uscio di Charlotte Rutherford, nota soprattutto come fotografa per il suo immaginario surreale, biotecnologico e larger than life, tra David LaChappelle e Frederik Heyman. Se il presupposto di Woman’s World (la riformulazione dei codici rappresentativi dei due sessi, con tanto di Perry che piscia in piedi) è stanco e scontato, non lo sono necessariamente i quadri inventati da Rutherford (la Nostra come Rosie the Riveter) che però, giocando ambiguamente con gli stereotipi, pongono l’artista in una posizione contraddittoria rispetto al messaggio del testo (di femminismo naif), al confine tra maldestra satira (rivendicata, ma indecifrabile) e autolesionismo. Polemiche ottenute (a iosa), ma reazioni negative al punto che è stato rimosso il conteggio dei “Non mi piace” sul Tubo. Vabbè, in fin dei conti anche uno scult fa curriculum.

Call (Kasabian)
diretto da Waxxwork
Quello che un tempo definii video-exploit e che vede nella videografia degli Ok Go la sua apoteosi. Qui una performance di Pizzorno registrata su un’IPhone poi lanciato (con un paracadutista attaccato) da un elicottero nel vuoto. Il grande boh (Making of).
Per fortuna Timothy Casten e Vikesh Govind ci ricordano, al di là delle imprese e delle scommesse, cosa sono capaci di fare tornando ai London Grammar (dopo questo, che ci esaltò l’anno scorso) e in House ci restituiscono la prospettiva di una mosca che attraversa tante situazioni e personaggi riuniti a un party. Bravi tanto, li aspettiamo per il botto definitivo.

Mustang (Kings Of Leon)
diretto da Brook Linder
Una performance en plein air circondata da tanti mini-sipari sui quali la camera si muove alternativamente: una vita quotidiana aumentata in surrealtà e stramberia che, guardando ai classici paranoici della New Hollywood, rimanda direttamente al Beck-Romanek di Devils Haircut. Concetto che si sviluppa in accumulo di figure (Gondry e quindi Rybczyński) con un montaggio evidentemente fratto ma che, nel movimento convulso di camera, vorrebbe restituire un senso di continuità.

Lovers’ Leap (Elbow)
diretto da Henry Oliver & Justin Du Pre
Splendido bianco e nero per una realizzazione che coniuga implicita narrazione e concetto (il salto nell’ignoto): un uomo e una donna fuggono in una città che si trasforma e li trasforma. Animazione, immagini di repertorio, effetti speciali, tutto al servizio di sequenze che si incollano armoniosamente al brano musicale.
Da Du Pre (con Elliott Ginzo) anche questo per Vintage Culture, molto ben realizzato, con narrazione sfuggente (non è un male, anzi) che si incricca in immagini assai ripetitive che devono in tutta evidenza coprire il minutaggio, un po’ noia.

Stayinit (Fred Again…, Lil Yachty, Overmono)
diretto da LOOSE, UNCANNY
Tra documentario ed esperienziale: registrare (su pellicola) la reazione di Lil Yachty al primo ascolto del brano da un vero impianto («L’aveva ascoltata solo al telefono»). E regalargli questa esperienza assieme al pieno dispiego del light design concepito per un rave che si sarebbe tenuto di lì a poco al Knockdown Center di New York. Funziona.
Da UNCANNY anche l’elegantissima ironia di Just My Luck per Obonjayar e Arachnids per Disclosure che conferma essenzialità ed efficacia della proposta del duo.

Dizzy (Olly Alexander)
diretto da Colin Solal Cardo
Colin Solal Cardo raramente va oltre l’apprezzabile mestiere, ma a questo giro riesce a concepire un brillante congegno scenico, costituito da molteplici set, nel quale il discorso angoscioso del brano si riflette completamente, grazie anche agli efficaci ribaltamenti di prospettiva, agli schizofrenici cambi dei punti macchina e al serratissimo montaggio.

Disconnect! (Jeshi feat. Fredwave, Louis Culture and J. Caesar)
diretto da BLACKWALL
Concetto semplice e fortissimo legato alla modalità di ripresa circolare che tiene uniti i contesti diversi e rende il senso di disorientamento del protagonista, la disconnessione dal reale a cui il pezzo fa riferimento. Dai due registi quest’anno anche Lowdown (parts i & ii) in cui aderiscono poeticamente alla traccia di Michael Kiwanuka con un’altra prova di cristallina essenzialità: del ragazzo che fa evoluzioni in bici si restituisce l’emozione attraverso un montaggio morbidissimo e la dissimulata dilatazione dei tempi.

Runaway Pop (Tama Gucci)
diretto da Jonathan Qualtere
Se il videoclip mutua da sempre forme e generi della Settima Arte, niente quest’anno mi pare battere l’operazione duplicatoria che Jonathan Qualtere fa di Funny Games di Haneke nel video che ha lanciato il primo album di Tama Gucci. Partendo dichiaratamente dalla versione U.S. del film, che l’austriaco girò nel 2007, e rispettandone persino il font rosso del titolo, il regista la impregna di umori queer adattandola al protocollo di un sensuale video performance. Il risultato (la rievocazione non manca del momento superteorico del riavvolgimento del nastro) vive tra la suggestione del riconoscimento cinefilo e l’ironica smentita della pedissequa mimesi.

J Christ (Lil Nas X)
diretto da Lil Nas X
Sovversivo dal minuto zero, Lil Nas X lo è nell’ambito insidioso del mainstream nel quale l’implicito inno alla autodeterminazione sessuale sotteso a ogni sua sortita suona ancora scomodo. Se il video di Montero aveva provocato un «panico morale vecchio stile» (così il New York Times), il minimo era inaugurare una nuova stagione (il documentario Lil Nas X: Long Live Montero), con un clip che, nel rinverdirne i fasti, tentasse di alzare l’asticella di un’altra tacca. Rifacendosi all’immaginario biblico del precedente, l’artista reillustra ascesa al paradiso (ritratta come il photocall del Met Gala) e discesa all’inferno, aggiungendo un accenno al diluvio universale (ergo all’emergenza climatica) e, soprattutto, un’impersonificazione sensualissima di Gesù. Che irrita la fanbase cristiana. Per alleggerire (si fa per dire) diffonde un TikTok in cui simula l’atto della comunione, mangiando cracker e bevendo succo: apriti cielo, le critiche lo inducono a scuse pubbliche (l’ennesima trollata?). Lil Nas X ha 24 anni e sa come si consuma la videomusica odierna: tramite reel, meme, pillole e il clip (che ha diretto) ne inanella una collezione pronto uso. Condisce il tutto con sosia d’effetto (Obama, Ed Sheeran e Kanye West per tutti) e citazioni evidenti o nascoste (il wallpaper di Windows XP, il video The Box di Roddy Ricch diretto dall’amico Christian Breslauer, il film Ragazze nel pallone di Peyton Reed). Obiettivo centrato: non avrà l’ispirazione di Montero né la sua complessa levità, ma il video di J Christ ha suscitato reazioni di eguale portata.

All My Love (Coldplay)
diretto da Spike Jonze e Mary Wigmore
Sulla capacità dei Coldplay di valorizzare la loro videografia ho ripetutamente detto. Tra i migliori commissioning artist di sempre, non hanno semplicemente scelto con oculatezza e lungimiranza i registi con i quali collaborare (colossi – Mark Romanek, Anton Corbijn, Hype Williams, Dougal Wilson, Shynola, Jonas Åkerlund, Dave Meyers – accanto a talenti dell’ultima generazione – Mathew Cullen, Aoife McArdle, Vania Heymann & Gal Muggia -), ma si sono impegnati nella costruzione di una poetica che, al di là delle mutevoli firme (un’unica costante: il sodalizio con Mat Whitecross), suonasse organica e coerente con le caratteristiche del gruppo. I britannici si sono affermati, insomma, come intelligenti divulgatori di sperimentazioni visive e concezioni innovative, conciliando le esigenze di un colosso commerciale, con quelle della ricerca e della qualità. La collaborazione con Spike Jonze giunge, insomma, come coronamento di un percorso consapevole: l’americano, sempre più estraneo al registro abituale del videoclip – non solo contemporaneo – concepisce il viaggio per immagini di All My Love come incontro tra Chris Martin e Dick Van Dyke nella casa di quest’ultimo a Malibu. L’attore e showman di Mary Poppins e Citty Citty Bang Bang, alla soglia dei cento anni, eleva un inno alla gioia, all’armonia familiare, al tempo che fugge, in una struggente quanto briosa esibizione a due.

Untz Untz (Tommy Cash)
diretto da Alina Pasok, Tommy Cash
Di Tommy Cash abbiamo detto tantissimo in questi anni, come videomaker è colui che ha osato maggiormente in quanto a tematica e rappresentazione. Ardito, scorretto, divertente e formalmente elegantissimo il suo videomaking non poteva che arrivare qui, al porno. Questi giochi olimpici del sesso sono un’infilata (pardon…) di idee che non può lasciare indifferente nessuno. Quello che rileva in questa sede, al di là della felicità dell’esito, è la tenacia e la coerenza del progetto di questo artista. Difficile immaginare cosa altro possa proporci di più ardito.
Qui la versione censurata disponibile su YouTube.
Qui la versione integrale disponibile su PornHub.
Avete cliccato tutti la prima, no?

LONG VIDEO, CICLI ETC.


Live From Utopia (Yard Act)
diretto da Ja Humby
Happening live con effettistica applicata in tempo reale.

Get Lit (Kamasi Washington feat. George Clinton, D Smoke)
diretto da Jenn Nkiru

Prelude To Ecstasy (The Last Dinner Party)
diretto da Harv Frost

Isotope (Wasia Project)
diretto da Charlie and Charlie

Common People (James Smith)
diretto da Ricky Gibb

KABELMANN (Paul Kalkbrenner)
diretto da Björn Rühmann

ANIMAZIONE

One Night/ All Night (Justice, Tame Impala)
diretto da Anton Tammi
Tammi parte dal clamoroso lavoro sull’artwork per la copertina del disco a cura del graphic designer Thomas Jumin – che, muovendo da una suggestione fantascientifica, immagina i Justice in una navicella spaziale – e arriva alla consueta rivisitazione del logo del duo – la croce inclinata creata dal videoartista So Me nel 2005 -, di disco in disco adattata alle caratteristiche del progetto. Stavolta, ispirandosi ad Alien di Ridley Scott, la si concepisce come un contenitore tridimensionale trasparente che ospita un organismo vivente: il video di Anton Tammi ne penetra il contenuto (tessuti, organi, scheletro) in un viaggio visivo che ne attraversa la sostanza biologica come fosse un paesaggio, macabro e psichedelico a un tempo. Un’immersione affascinante, una dichiarata sfida tecnologica che lambisce i confini della videoarte.

Alien Girl (J Hus)
diretto da Picnic Studio
Interattivo, prodotto da Partizan.

Cream (J Hus feat. CB)
diretto da Nicholas Lam

Y.B.P. (Danny Brown feat Bruiser Wolf)
diretto da Edem Wornoo, William Child

That Golden Time (Villagers)
diretto da Rok Predin

Skoro (Myph)
diretto da Kiryl Nong

Flight Risk (PEGGY)
diretto da Ben Phillippo

Entre Las Piernas (Elsa Y Elmar)
diretto da Frederick Venet

Bigger Than The Night (Shawn Hook)
diretto da Jordan Clarke

Do Or Die, Don’t Or Die (Scribe)
diretto da Mardo El-Noor

Soulbreaker (A.G. Cook)
diretto da Gustaf Holtenäs

COREOGRAFICO


You Go Your Way (Perrie)
diretto da Charlie Di Placido

coreografia di Christina Olesen

The Thief (Future Islands)
diretto da Ivana Bobic
coreografia di Ted Rogers

Motorway (Goat Girl)
diretto da Holly Blakey
coreografia di Holly Blakey

God Gave Me Feet For Dancing (Ezra Collective)
diretto da Tajana Tokyo
coreografia di Kikz Katika, Michele Zan

Signals (D3lta)
diretto da Roisino
coreografia di Hayley Walker

Boy In Love (Elliot James Reay)
diretto da James Slater
coreografia di Ethan Samuel Jacobs

Catch 22 (Hydreamia)
diretto da Bruno Chiecco
coreografia di Jakub Franasowicz

Flowers (Gustaffson feat. Bear McCreary)
diretto da Myriam Raja

 

 LA TOP 20