Real Joy (Fono)
diretto da Simon Cahn
Due heavenly creatures che giocano. Ma poi no. O sì? Splendido esercizio di ambiguità, – oscillante, poetico – che riesce a delineare, con precisione di tratto, due personaggi, una situazione, dei possibili presupposti.
Sulle sfumature di senso gioca maestosamente, quest’anno, un altro video di Cahn, Blame per Denai Moore.
Everyday (A$ap Rocky)
diretto da Emmanuel Cossu x Fleur & Manu
A Hip Hop Hollywood Story: si comincia dalla morte in piscina (Viale del Tramonto di Wilder), e si chiude à la C’era una volta in America, con il sorriso stolido del protagonista, stordito dagli oppiacei che, come il personaggio interpretato da De Niro, forse si è sognato tutto. Nel mezzo la storia di una star dell’hip hop, oramai vecchia e ingrassata, sfigurata dagli interventi di chirurgia estetica, che – Norma Desmond, nella sua villa regale – si riguarda i filmati del bel tempo che fu. Il trip di A$ap Rocky percorre il passato, attraversa il presente e si spinge, visionariamente, al decadente futuro: i ricordi sono illusioni, il tempo vissuto un’ipotesi (ironica? consapevole?) da avvalorare o respingere.
Vive di nostalgie artificiali l’ennesima strizzata d’occhio citazionista di Emmanuel Cossu, nell’occasione disgiunto dalla sua Fleur.
Restless (New Order)
diretto da NYSU
Un Excalibur patinato nell’incrocio contraddittorio di found footage e tableau vivant: barocchismi compiaciuti, sensualità pietrificata, squarci estetizzanti anni 80 (in ossequio al brano), minuzioso studio dei colori, anacronismi spudorati inscritti in una messinscena che si muove tra composizioni pittoriche e gaudente caos. Il capriccio camp di NYSU suona come un Jarman redivivo.
Fantasìa (Fur Voice)
diretto da Pablo Maestres
La surrealtà è il punto di incontro tra sogno e veglia: la produzione immaginaria in quel territorio è senza limiti e Fantasia che, macina invenzioni senza soluzione di continuità, sondando anche i confini dell’incubo, ne disegna una mappa eccitante. Pablo Mestres si muove sulle orme dei connazionali CANADA e, superandoli in curva, conferma quanto il collettivo catalano – e le sue ricognizioni nelle estetiche e poetiche vintage – abbia costituito, con il docudrama gavrasiano, la vera big thing dell’ultimo decennio videomusicale.
High By The Beach (Lana Del Rey)
diretto da Jake Nava
Un elicottero scruta una villa a picco sul mare: sulla balconata si distingue una figura femminile: nella grande casa semivuota la protagonista è sola, disturbata dal velivolo. Il lungo pianosequenza, con camera a mano pedina, allora, Lana Del Rey prima all’interno e poi all’esterno del suo buen retiro: la custodia di una chitarra nascosta tra gli scogli viene recuperata e, aperta, rivela all’interno una mitragliatrice. La donna la punta verso l’elicottero, da cui fa capolino un teleobiettivo, e lo fa esplodere. La diva, oggetto di attenzione spasmodica da parte dei media fa di High By The Beach, – diretto dal veterano Jake Nava (Single Ladies, mica cotica), già al servizio dell’americana per Shades of Cool – l’ennesima occasione per autocelebrarsi. Tra zoom instabili – come se le immagini fossero davvero rubate – e magistrale gestione di spazi e tempi, nell’assenza (studiatissima) di artistic design, Nava conferisce l’effetto vento sulla performance attraverso l’aria smossa dalle pale dell’elicottero. Intanto immagini (i paparazzi) e testo della canzone (un ex da allontanare) dicono le stesse cose a persone diverse. M’inchino.
World War Pt. 2 (Autre Ne Veut)
diretto da Allie Avital
Il disagio vero con Autre Ne Veut e un’appendice umanoide che, avvinghiata a lui, lo segue ovunque, nel finale sembrando progressivamente diventare parte del suo corpo: un fardello che lo opprime, un passato scomodo, la rappresentazione metaforica di un rapporto d’amore simbiotico? Letture molteplici per un video che riesce a portare avanti il suo laconico discorso narrativo aderendo in modo stupefacente al brano musicale. Di più: facendo di quest’ultimo il percorso che scandisce la storia.
Quasi un paradigma, il video dell’attivissima Allie Avital.
Shame (Young Fathers)
diretto da Jeremy Cole
Un ragazzo cammina, spavaldo, sanguinante e coltello alla mano: chi sia, cosa abbia fatto non è dato sapere; tutto quello che ci viene mostrato è il suo comportamento, la sua irruenza, la sua avanzata che sa di sfida, nello squallido ambiente suburbano in cui si muove. Il racconto di questo video in continua evoluzione (e che nella parte finale diventa coreografico) è tutto nella testa dello spettatore: mutevole, ipotetico e probabile specchio dei suoi pregiudizi, delle sue fobie, della sua cultura. Anche il testo in didascalia serve a moltiplicare le domande e a non fornire risposte certe.
Clip potente e supponente, veste alla perfezione la strepitosa traccia musicale. Ed è una violenta sprangata ai discorsi sul budget.
Bitch Better Have My Money (Rihanna)
diretto da Robyn Rihanna Fenty & MEGAFORCE
Tratto da una storia vera: quella dell’amministratore che truffa Rihanna (fine). Da lì una canzone con cui si esige la restituizione del maltolto e un video, questo, che traduce in immagini la fantasia vendicativa e omicida della cantante nei confronti del mascalzone. La aiutano i MEGAFORCE. Le loro fisse cinefile (Faster! Faster! Pussicat!, Thelma & Louise, Carrie, e altre ancora: vediamo quante citazioni riuscite a indovinare…) e il loro effervescente apparato visivo assicurano forza e ironia alla provocazione di Rihanna che usa il video come la Madonna dei tempi d’oro: veste i panni di un personaggio che sarebbe se stessa, finto nella verità e vero nella finzione.
Promo sintomatico di una tendenza (il 2015 dominato dalle badass che combattono, pretendono ciò che è loro, si confrontano con l’uomo, senza complessi e senza complessi prendono iniziative estreme: da Taylor Swift a Lara Del Rey) e oggetto di polemiche oziosissime (e quindi assai utili alla causa commerciale e alle view del Tubo) su misoginia, violenza, nudità e altri simili barbosissimi e telefonatissimi specchietti per le allodole. Tutto nella norma: c’è un topo (topic?) che non corre e un gatto che non lo rincorre. Alla fine tutti contenti, utenti compresi: è la rete, bellezza.
Con Mads Mikkelsen, Eric Roberts e Rachel Roberts.
E no, qui non c’è l’oramai modaiola tendenza a ricalcare Gaspar Noé: gli è che la fotografia del clip è di Benoît Debie, il deus ex machina (da presa) del regista argentino (e non solo).
Garden (Hinds)
diretto da Pedro Martin-Calero
Già autore del notevolissimo Blanc e di un frizzo coreografico per Twin Souls che si avvicina molto a quest’ultimo clip, Pedro Martin-Calero torna a fare centro con una fantasia lievemente godardiana, fatta di geometrie colorate, esplosioni pop, metafore brillanti (i petali di rosa sniffati come coca), citazioni buñuealiane (l’incongrua gallina; l’iconoclastia giocosa; le molte attrici, le stesse Hinds, a ricoprire il medesimo ruolo, come in Quell’oscuro oggetto del desiderio – ma Buñuel c’entra sempre, in tutta la nueva onda video -), concessioni a iconografie riconoscibili (grafica anni 60, softcore anni 70, come CANADA insegna), puzzle di immagini, texture riconoscibili, mirror effect, sovrapposizioni. Tour de force di stilismi ed ermetismi in cui a dominare è il piacere dell’ironica associazione, di un pastiche visivo in cui la realtà è solo un riflesso impressionista.
Green (Azel Phara)
diretto da Bif
I Bif (Jules Janaud e Fabrice Le Nezet), autori di corti sperimentali prodigiosi (Dix, tra gli altri, si era visto alla Mostra di Venezia 2008), alle prese con il videoclip di animazione, mettono in campo un’originale sintesi dell’orrore bellico. In Green, utilizzando forme elementari colorate, quasi infantili, giocano per contrasto con la violenza straripante di un inseguimento che coinvolge forze di terra, mare e aria, l’azione culminando in un’esplosione atomica che azzera tutto. Utilizzando una palette cromatica basica, che ricorda le riduzioni grafiche della realtà sui visori di un radar, concependo il lavoro tutto in CGI (fanno eccezione le figure umane in mo-cap, per aumentare l’effetto realistico), il duo mette in scena un crescendo brutale, visivamente esaltante, che aderisce alla perfezione alle atmosfere del brano.
In HD, a tutto schermo, a tutto volume.
Some Kind of Heaven (Hurts)
diretto da Chino Moya
È oramai qualche anno che Chino Moya sforna video e commercial bellissimi, forti di un’estetica riconoscibile (cura certosina della spazialità, forte rilevanza dell’art direction, fotografia ultrasatura a esaltare i colori), di narrazioni surreali, contesti retrofuturistici, performance glamourose, concettualismi devianti (nel 2015, oltre questo, i già segnalati video per Years&Years e Will Young).
Il clip per gli Hurts è il consueto trionfo immaginifico, fatto di finezze luministiche e di una dinamica forma-colore che consentono l’orchestrazione di questo mental-thriller secondo le logiche dell’incubo: è dunque il pregevole apparato visivo a far muovere il racconto su una dimensione sì concreta, ma solo parallela alla realtà, al delicato confine con la paranoia.
Alright (Kendrick Lamar)
diretto da Colin Tilley & Little Homies
Kendrick Lamar domina i cieli di Los Angeles, come un supereroe senza tuta, idolo dei teenager, rassicurante figura fluttuante che sparge in giro ottimismo (e dollari). Per questo pagherà, ma continuando a sorridere: le cose andranno bene. Forte del bianco e nero prodigioso di Rob Witt e Corey Jennings, Alright è un drammatico (ma soave) atto di accusa al razzismo delle istituzioni (il poliziotto bianco che spara al ragazzo di colore senza motivo) e ai pregiudizi nei confronti della comunità nera. Tra onirismo e realismo, Colin Tilley (con un sostanziale apporto ideativo dello stesso Lamar) abbraccia il poetico senza svenevolezze, per poi virare nel visionario spurio. Un’immersione densa nel contemporaneo, ma, per l’appunto, senza appellarsi ai codici, a una rigida programmaticità o a un’invettiva invasiva, anzi, con una messa in scena protesa ad esaltare l’intuizione stringente, il frammento significativo, la folgorante metafora visiva.
Le Fantôme (Monogrenade)
diretto da Kristof Brandl
Toccante ricognizione nella memoria personale, rivisitata, rivissuta, rielaborata attraverso un futuristico macchinario: i momenti felici sono cristallizzati, i ricordi immagini spettrali ibernate nel tempo trascorso, passibili solo di essere contemplate e non animate, fino a quando l’illusione scricchiola, l’immagine si sfalda, lasciando intuire il dramma, l’irreversibilità della tragedia, il motivo di quel viaggio temporale. La science fiction incrocia l’intimismo in una rappresentazione del passato in cui l’immobilità delle figure viene contraddetta dalla cinetica macchina da presa che, in quell’avvicinare e circumnavigare i corpi, empatizza col protagonista e restituisce senso e sensibilità di una dimensione che resta puramente mentale.
Need You Now (Hot Chip)
diretto da Shynola
Alexis Taylor rivive la stessa circostanza (la rottura con la compagna) tre volte contemporaneamente, incrociando gli altri doppelgänger e interagendo con essi. La situazione viene mostrata, dunque, tre volte (che corrispondono agli inneschi del ritornello della canzone, rimandata da un videoclip che vediamo da un televisore sintonizzato su un canale tematico), dai diversi punti di vista dei tre Sé, l’ultimo dei quali, riuscendo a consegnare alla donna una foto che testimonia un momento felice della coppia, la convince a restare. Applicando un canone piuttosto ricorrente negli ultimi anni – che rimanda alle alterazioni spazio-temporali del videoartista Zbigniew Rybczyński e alle soluzioni seriali e ricorsive di Michel Gondry – il collettivo britannico Shynola dimostra, ancora una volta, di non essere soltanto un’eccellenza tecnica, ma di sapere gestire con maestria complesse costruzioni narrative che sfruttano a fondo l’originalità del loro approccio agli strumenti. In questo caso imbastiscono un racconto-nastro di Moebius in cui riescono a fare della scelta multipla e del peculiare approccio temporale la base di un fascinoso mélo-mystery.
Go (The Chemical Brothers ft. Q-Tip)
diretto da Michel Gondry
Cosa c’è da dire ancora su Michel Gondry? Su quella che è stata la grammatica del videoclip di questi ultimi vent’anni? C’è da segnalare il terzo appuntamento con i Chemical Brothers (uno a decennio, tanto per metterci una pesante impronta sopra – e parliamo di due precedenti-moloch, Let Forever Be e Star Guitar -) e del sereno ribadimento di una visione, una di quelle puntualizzazioni che solo i grandi maestri, quelli che hanno detto cose fondamentali (e dato in misura proporzionale) possono permettersi senza apparire ripetitivi, pleonastici, senili.
Ma in Go, oltre alla maniera del francese (la coreografia di pole dance che traduce il suono alla lettera, come il paesaggio di Star Guitar, per fare un solo esempio) c’è di più: c’è lo scompaginamento del paradigma gondryano, il pianosequenza (la sua griffe), negato con stacchi di montaggio evidenti, cesure spudorate che garantiscono, però, il rispetto del primo dogma (la sincronizzazione, appunto). C’è che la serialità dei soggetti ottenuta senza effetti speciali è messa in scena in un contesto ritagliato dalla realtà, per quanto vagamente metafisico (il distretto di Front-de-Seine a Parigi, la cui urbanistica postmoderna è usata come perfetta “ambientazione” del suono del duo inglese); c’è un dichiarato omaggio alla pittura cinetica dei futuristi; c’è, soprattutto, una proposta artistica che è calata perfettamente nei tempi (clip low budget, come la congiuntura richiede). Go, dunque, non è un esercizio, ma si rivela il solo possibile video di Michel Gondry oggi: puramente concettuale, giocoso, colto, semplice/difficile, anti-kolossal, sì, ma ancor una volta in radicale opposizione all’estetica dominante, dunque lontano galassie dalla provocazione, dal twerking o dall’opportunistico uso del corpo-esca.
Politico, a suo modo (e qui c’è tradizione).
Every Breaking Wave (U2)
diretto da Aoife McArdle
L’amarcord di Aoife McArdle (dopo il futuro, il presente è suo, non solo nel videoclip) ci porta nell’Irlanda del Nord degli anni 80: l’amicizia, l’impegno, la lotta, il sangue, il rock annodati da un filo romantico e tragico (la storia d’amore tra due ragazzi separati dalle barricate religiose) e autobiografico; dall’affresco generale al vibrante particolare, in un magnifico short, tanto impetuoso, quanto sapientemente concepito (la ricostruzione d’epoca accuratissima), con immagini da cui trasuda quel gusto pittorico (i riconoscibili cromatismi primari) che oramai contraddistingue i lavori della regista. Disponibile anche la versione breve.
Gli U2, con l’imposizione dell’album su ITunes, vincono il premio Operazione Odiosa, ma si riscattano con una campagna video di innegabile freschezza che, non sbagliando nulla (oltre a quella di McArdle, le regie del già citato Haycock e del veterano Matt Mahurin), sa davvero osare (la felice operazione Films of Innocence che, ispirandosi ai graffiti dei muri di Belfast, affida la versione video dei brani dell’album a vari street artist).
Apparition (Stealing Sheep)
diretto da Dougal Wilson
Come Gondry, anche Dougal Wilson (una delle firme più importanti degli anni Zero, oramai consacrato ai commercial e di ritorno alla videomusica dopo più di un lustro) gira un video di apparente vecchio stile, in evidente discontinuità con i tempi, ma coerente con la sua brillante produzione e con quel carattere fortemente britannico che contraddistingue da sempre i suoi lavori, così intrisi di iconografia tradizionale. Rielaborando un’idea già al centro di un suo video per Four Tet (As Serious As Your Life, in cui montava found footage sulla tradizionale Morris Dancing, in modo da adattarlo al brano) mette a punto un promo in cui divertimento, tecnica e concetto viaggiano allineati: così il pianosequenza è ovviamente finto, gli interventi in VFX sono concepiti in chiave quasi naturalistica, l’adesione al brano proviene da elementi sia coreografici sia apparentemente accidentali (le bocche delle maschere) e ogni aspetto (dal color editing cartolinesco alla messa in scena nel countryside inglese) appare ragionato e calibratissimo. Giocando argutamente di contrasto tra l’elettronica ipnotica del brano e la danza folk, Wilson perviene – attraverso un elaboratissimo progetto -, a un risultato straordinariamente lieve e apparentemente semplice, di quelli che si guardano senza stancarsi mai.
Maestro.
Señorita (Vince Staples)
diretto da Ian Pons Jewell
Il sanguinoso stillicidio che ci si presenta dinnanzi è una rappresentazione simbolica dell’attualità? La visionaria anticipazione di un futuro possibile? Una certa realtà è diventata il parco degli orrori allestito per l’intrattenimento di una fetta privilegiata di società (bianca, non è certo un caso)? O assistiamo alla messa in scena di una legge marziale, classista e razzista? Verità o finzione che sia, quanto calcolo, quanta malafede c’è in questo spaccato decadente? Dove sono le responsabilità? Video metaforico e complesso, testo apertissimo, che affida al crescendo – e al magnifico finale che svela la stratificazione – un punto interrogativo pesante come un macigno e un senso di imbarazzo e inadeguatezza difficile da togliersi di dosso. Ian Pons Jewell continua a sfornare lavori di forte impatto emotivo, di notevole complessità di lettura e sempre magnificamente girati.
To Ü (Skrillex & Diplo ft. AlunaGeorge)
diretto da AG Rojas
Come ho scritto su Videostar (Film TV, n. 46 /2015, p. 29):
«TO Ü è la nuova tappa di un ritratto in itinere di un’America marginale, galleria di volti e corpi che AG Rojas (…) porta avanti da sempre nel suo lavoro, non solo videomusicale. Partendo da una conoscenza approfondita dei contesti umani proposti, frutto di un lavoro accurato ed empatico di immersione ambientale, il regista lascia emergere frammenti di un mondo, minuscole parti che rendano l’idea di un tutto: interni impregnati di vita vera, oggetti che raccontano storie, fulminee incursioni su dettagli di precisione bruciante. Memore della lezione di Romain Gavras, con la complicità del fedele-da-sempre Michael Ragen alla direzione della fotografia, Rojas si muove tra documentario e sua aperta contraddizione, congelando l’umanità che rappresenta, ibernandola in una posa, lasciando che Aluna Francis abbozzi la performance, prevedendo come unico effetto speciale un fuoco d’artificio, azzardando persino scampoli di coreografia, quasi citazioni di una maniera all’interno di una struttura altrimenti aperta, consegnata come appare a associazioni libere, a mere suggestioni visive: TO Ü è, allora, innocenza, miseria, bellezza di esistenze in boccio in un settembre come un altro a Detroit. Difficile trovare in giro un clip più potente e intenso di questo, sentito inno d’amore per una generazione che mette i brividi: sono immagini, quelle di AG Rojas, che, lasciandoci senza difese, ci invadono e vincono con la forza pura dell’emozione».
Un lavoro, dunque, apparentemente libero ed emotivo, ma in realtà strutturato, denso, ragionato, in cui la macchina da presa diventa davvero l’estensione dello sguardo del regista e la messinscena la versione videomusicale della realtà.
Borders (M.I.A.)
diretto da M.I.A.
Fotografia: Nirav Shah
Montaggio: M.I.A.
Art Direction: M.I.A., Sugu Arulpragasam
Creazione: M.I.A., Tom Manaton
Produzione: Prettybird
M.I.A. non si nasconde: inneggia, lancia invettive, commenta situazioni che dicono di violenza, sfruttamento, povertà, disparità. E non ha remore nell’usare la sua arte e la sua visibilità per darvi risonanza: la sua musica ne parla, le sue manifestazioni pubbliche sono improntate alla denuncia e alla rivendicazione. E così i suoi video. Perché di fronte al chiasso indistinto dell’aggressiva comunicazione contemporanea, per farsi ascoltare bisogna toccare la società nei punti sensibili, aizzare i suoi sensi di colpa, arrivare a imbarazzarla, costringerla a prendere posizione e a non riparare nella comoda, liberatoria, supina (perché tombale) approvazione automatica.
Per questo Maya Arulpragasam non ha bisogno di dire che è anch’essa una rifugiata per legittimare la sontuosa messa in scena di Borders e l’astrazione estetica che opera sul reale; non deve accampare giustificazioni per questa grandiosa, toccante monumentalizzazione delle immagini-effigie di un dramma contemporaneo: le scene che la routine dell’informazione, rendendole banalmente emblematiche, ha svuotato di senso (la folla di disperati che vuole passare un confine, i barconi strapieni, le scogliere popolate di naufraghi), vengono plasmate in forma disturbante perché suggestiva. Il corto circuito tra l’accattivante composizione figurativa e la tragicità degli assunti rende instabile la prospettiva di ogni spettatore, fosse anche il più corretto e solidale. Lo inducono, finalmente, a riconsiderare la questione, a porvi mente: Borders chiamando in causa il gusto del pubblico, le sue convinzioni, le sue aspettative, la sua etica, ne scardina l’indifferenza o la pacata rassegnazione.
Egos
What’s up with that?
Your values
What’s up with that?
Your beliefs
What’s up with that?
È inevitabile (e va bene così) che tanti abbiano detestato questo clip, che ci siano state prese di posizione radicali, che si sia parlato di sfruttamento e imbellettamento di una catastrofe sociale: perché – come insegnano i lavori del sodale Romain Gavras – non si accompagna la rappresentazione con sottotesti esplicativi, giustificazioni incorporate, rassicurazioni travestite: che sia lo spettatore a elaborare ciò che sta guardando, che venga lasciato solo, senza bussola. Che trovi la sua strada, quale essa sia: questo video, come tanta arte contemporanea, non teme giudizi esterni, anzi, li sollecita perché vuole essere oggetto di discussione e riflessione.
E allora Borders è utopia e lotta senza contraddizioni, perché le vere contraddizioni vivono nel mondo ipocrita che ha ridotto a normalità quelle sciagure che M.I.A. ritraduce in quadri coreografici (Life, la scritta umana sulle inferriate), ristagnano in quel capitalismo feroce che il dramma lo sfrutta sul serio (un sovversivo Fly Pirates si legge sulla sua t-shirt, parodia polemica dello slogan Fly Emirates).
M.I.A. lancia con un sorriso uno schizzo d’acqua verso la camera e cammina da star sulle onde (circondata da soli uomini, come in un iconic video qualunque), solo per ricordarci che quello è il mare in cui, quando Borders non risuona, annegano a migliaia.
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