TRAMA
La detective Muldoon indaga su una serie di morti inspiegabili. Il rancore è tornato…
RECENSIONI
RANCORE VIRUS
Sono passati vent’anni da Ju-On di Takashi Shimizu: cult involontario dell’anno Duemila, un piccolo film indipendente giapponese di 70 minuti uscito direttamente in homevideo con trama elementare, meccanismo horror semplice, personaggi non particolarmente approfonditi. Allora perché ha aperto una saga, generato dodici film e soprattutto è stato uno degli ultimi midnight movie del contemporaneo, visto e rivisto da nerd riuniti di notte, amato e storicizzato? La risposta, rivisto oggi nel 2020, appare una sola: perché faceva paura. Nella sua facilità, nella chiara matrioska dei livelli temporali (che dalle temporalità elastiche dei vari Nolan suona superata), la sensazione di minaccia perenne e le apparizioni di Kayako sono semplicemente spaventose. Merito di Shimizu, regista minimizzato e mai diventato “autore”, colpa imperdonabile per certa critica, che gradualmente prenderà altre strade tra cui la più sintomatica è quella videoludica: arriverà a firmare la regia del videogioco Project Scissors: NightCry nel 2016. Ma prima Shimizu ha diretto l’auto-remake americano The Grudge (2004), prodotto tra gli altri da Sam Raimi. The Grudge 2020 è un sidequel di The Grudge 2004, ovvero un racconto che si svolge durante e dopo i fatti di quel film.
Il tredicesimo capitolo della saga viene affidato a Nicolas Pesce: giovane cineasta americano classe 1990, astro nascente del genere dopo l’esordio The Eyes of My Mother e soprattutto la miniatura Piercing, 80 minuti di fantasia sadomaso tra Mia Wasikowsa e Christopher Abbott che “guarda nell’abisso” con perversione e leggera ironia, per poi avvitarsi in un finale dislocante al termine del (breve) percorso. Giovane, scorretto, cresciuto nell’immaginario contemporaneo, dunque in teoria il nome giusto per riportare in vita The Grudge. Il regista conferma la struttura a spirale tipica della serie, con il rancore che si irradia dalla casa giapponese e arriva fino a quella americana. Ribadisce anche lo sfasamento tra livelli temporali, caratteristica del franchise con la sua cronologia intrecciata che va avanti e indietro nel tempo: per indovinare l’albero genealogico del rancore e l’esatto propagarsi del contagio si può ricostruire il quadro completo solo alla fine, quando tutti i tasselli sono disposti sul tavolo. La principale ispirazione di Pesce, da lui stesso enunciata, è Seven: una traccia soprattutto visiva, perché dal riferimento fincheriano riprende umore e colore, ovvero il cromatismo giallo sporco da serial killer movie anni Novanta e la patina torbida sull’immagine che la avvicina a una ferita infetta. Ma non solo: torna qui anche il buddy cop, con la coppia di investigatori incarnati nella più giovane Muldoon (Andrea Riseborough) e nello stropicciato Goodman (Demián Bichir). Archetipo su archetipo. Al contrario della detection “con una fine”, lieta/cattiva che sia, qui si parte da un’indagine classica e plausibile (un gruppo di morti misteriose) per poi deragliare sul binario del sovrannaturale. L’oltreumano irrompe in America oggi, nell’epoca digitale: se la donna inizialmente si ostina a credere a un’indagine normale, l’uomo sa già la natura della “cosa” e con il suo vantaggio cognitivo tenta di scoraggiarla a proseguire; i due, naturalmente, saranno presto sullo stesso piano e ugualmente disarmati di fronte all’imponderabile.
Nella gestione della materia, rispetto al mero automatismo degli ultimi capitoli, il potenziale visivo di Pesce non si discute e si impone con forza almeno in due sequenze: l’incontro con il detective sfigurato, che fornisce l’indirizzo decisivo alla storia, ovvero in qualità di “mostro” esso stesso squarcia il velo sulla realtà del rancore; un altro topos, certo, ma ottimamente inscenato attraverso un dialogo tra campo e fuori campo che rende la deformità davvero disturbante. L’altro colpo di coda sta nel finale, con la moltiplicazione del bambino, che – ancora – conferma la sostanza del grudge, la sua resistenza a qualsiasi opposizione e apre all’eventuale sequel. Dall’altra parte il regista si perde nell’uso eccessivo di jump scare, urla, apparizioni improvvise, seppure giocando strategicamente su profondità di campo e spazio dell’inquadratura, con oggetti e figure nascosti nell’immagine che l’occhio deve ricercare. Ma siamo comunque nella zona dello “spavento facile”: in tal senso ricorda il remake americano piuttosto che l’originale, con l’alto decibel che sostituiva la gradualità dell’elaborazione nel giapponese, dove la paura nasceva dal quotidiano. Lì la dinamica interessante è che a girarli era lo stesso regista, come se Shimizu (consapevolmente?) facesse prima un horror orientale e poi un film commerciale americano. Qui invece Nicolas Pesce gira “il solito horror americano”, ma a tratti con stile. Era necessario? Non proprio. È un bel film? Nemmeno. Al tempo del genere politico, da Get Out a Midsommar, però questo The Grudge ci prova a ristabilire lo statuto dello paura pura, l’essere terrorizzati al primo grado, e quindi restituire dignità all’orrore in sé per sé senza allegorie o metafore. Se non fosse che il rancore si propaga come un virus che nessuno riesce a fermare... La sua attualità preterintenzionale è, francamente, sconcertante. Ma siamo già fuori dal cinema.