TRAMA
Tre giovani, due ragazzi e una ragazza, vivono assieme a Tel Aviv. Uno di loro, Noam, mentre è di servizio al checkpoint con la Cisgiordania, conosce Ashref, un ragazzo palestinese. I due, reincontratisi a Tel Aviv, si innamorano e gli amici israeliani decidono di aiutare il palestinese a rimanere illegalmente a Tel Aviv.
RECENSIONI
All’opera terza, dopo due film di discreto successo (Yossy e Jagger e Camminando sull’acqua) ma, a dir poco, sopravvalutati, Eytan Fox firma un lavoro drammaturgicamente più compiuto ma non meno paradigmatico e rigidamente dimostrativo rispetto ai precedenti.
Il regista inscrive la storia d’amore di questi due moderni Romeo e Giulietta - i due eroi, provenendo da barricate opposte, lottano contro due pregiudizi (quello culturale e quello sessuale) - in un quadro più ampio nel quale vengono a interagire diversi personaggi, di varia estrazione e ove la messinscena e il reticolo di bugie, che dovrebbero assicurare al palestinese la permanenza nella parte israeliana, si presentano come ingenua soluzione a una situazione ben più stratificata e problematica: la bolla del titolo, del resto, è Tel Aviv, città nella quale i giovani protagonisti vivono protetti, ma fino a un certo punto, e sostanzialmente distaccati (benché politicamente impegnati) dalle intemperie di una guerra sempre in atto e che sembra coinvolgerli a corrente alternata.
Se la prima parte, senza guizzi particolari, scorre via patendo soltanto la forzatura della ritrattistica dei personaggi (le loro connotazioni sono affidate a una serie di stereotipi generazionali e culturali – la musica, sempre molto presente nei film del regista -), la seconda, protendendosi verso la chiusura del cerchio narrativo, sfilaccia il già fragile ordito e sbilancia completamente la gamma tonale del film, palesando, ancora una volta, i difetti maggiori del Fox sceneggiatore (supportato dal fedele Gal Uchowsky) che, al semplicismo registico (certi spunti calligrafici, i flashback in home video, un’effettistica completamente fuori registro etc), non oppone una scrittura o un approfondimento dei caratteri adeguati al caso e all’argomento (l’apparizione della star Lior Ashkenazy, già protagonista del precedente del regista, nella parte di se stesso, è poi immotivata e integralmente gratuita).
Nota a margine che nulla a che vedere con il giudizio sull’opera: è paradossale che un film che, lo ha detto il regista, vuole essere un invito alla conciliazione, si presenti (non sappiamo quanto volontariamente, ma tant’è) così unilaterale nella presentazione del conflitto arabo-israeliano e in cui, fatte salve alcune graduazioni (che sanno di comoda foglia di fico), tutta la modernità, la tolleranza, la solidarietà, l’apertura e il progressismo sono di un Israele vittima e tutta la rozzezza, la violenza, la chiusura, l’integralismo sono di una parte palestinese aggressiva e ottusamente chiusa nelle sue posizioni. Lo stesso personaggio di Ashref, che viene dipinto come una mosca bianca, vittima della logica di una tradizione e di una famiglia, alla fine si trasforma in un kamikaze (come a dire: qualunque sia il tuo vissuto, interiore ed esteriore, qualunque sia il tuo grado di apertura, sei e rimani figlio di una cultura assassina e questa, prima o poi, verrà a galla). Se un regista vuol dichiarare in un’opera le proprie convinzioni in materia, qualunque esse siano, è lecito chiedere che lo faccia apertamente senza trasformarle in subdolo e ricattatorio messaggio di pace. La pace non la si costruisce certo con questi manicheismi, nasce anche dall’approfondimento e dalla valutazione delle ragioni dell’altra parte, dal riconoscimento delle complessità e delle contraddizioni insite in un conflitto. Di queste, nel film di Fox, non v’è traccia alcuna.
