C’è un oggetto, nella curatissima scenografia di Suspiria di Luca Guadagnino, su cui la sezione “Feticci e simulacri” dei principali manuali di stregoneria non ci offre purtroppo alcuna delucidazione e che tuttavia incarna e ben sintetizza (ri-unisce) le due tensioni che stanno alla base del film. Un sortilegio che – a giudicare dai pochi istanti di inquadratura che gli sono dedicati – forse è imprudente ricondurre a un consapevole disegno (pentacolare) degli autori invece che al semplice zelo dell’art department, ma che nondimeno sembrerebbe catalizzare oltre all’attenzione nostra anche quella del dottor Klemperer. Attenzioni che – en passant – proprio un “Simulacrum” ben sottolineato (an)notavano all’inizio del film negli appunti su Patricia e che ora si dividono tra l’oggetto in questione e il manifesto diffuso per la scomparsa della ragazza che gli è affisso accanto. Si tratta della prima pagina di un famoso articolo dello Spiegel che affronta la questione etica dei simpatizzanti della RAF, esordendo con l’etimo di sympàtheia (un patire insieme che conduce infine all’unità), sotto un titolo („Mord beginnt beim bösen Wort“) che afferma la terribile potenza della parola, formula (magica) che diventa azione concreta.
Ma andiamo per gradi (o per capitoli) e occupiamoci innanzitutto del padrino unico testimone di questa infusione (investimento?) di significato. Il personaggio del dottor Klemperer e – soprattutto – quello profilmico del suo interprete, il fantomatico Lutz Ebersdorf, sono stati fin da subito oggetto di una feroce inquisizione, mossa dall’opinione diffusa che quest’ultimo – millantato psicoterapeuta kleiniano esperto di legami madre-figlia e attore esordiente sconosciuto al web, fatta eccezione per una sospetta pagina IMDb – non fosse altri che Tilda Swinton sotto mentite spoglie e abbondanti strati di trucco. Regista e attrice hanno più volte smentito che Klemperer fosse interpretato da Swinton, arrivando a leggere in conferenza stampa a Venezia una lettera firmata da Ebersdorf – ovviamente impossibilitato a partecipare in prima persona – e difendendo allo strenuo la propria buona fede, anche nello svelare l’arcano qualche settimana dopo: che dietro a Klemperer ci sia effettivamente Ebersdorf è fuori discussione; nessuno però ha mai pensato di chiedere da chi fosse interpretato Ebersdorf a sua volta, al che la risposta sarebbe stata senza indugio “Tilda Swinton”. Questione di parole giuste dunque, come del resto si può dire anche dell’arguto indizio che poteva dirimerla in partenza – se avvezzi ai prodigi dell’alchimia onomantica –, affisso stavolta fuori dalla sala, troneggiante in locandina insieme ai nomi del resto del cast. Il tedesco “Eber(s)-Dorf” traduce infatti letteralmente l’inglese “Swin(e)-ton” (entrambi “villaggio dei cinghiali”) e così fa – pur con meno precisione – Lutz con Tilda (ipocoristici di Ludwig e Matilda), due nomi germanici che significano rispettivamente “fama in battaglia” e “forza in battaglia”. Gioco innocuo, marketing scaltro, ipoteca sull’Oscar al trucco, omaggio al polimorfismo ermafrodita di una Tilda in (perenne) stato di grazia orlandesco! – si potrebbe obiettare. È lo stesso Klemperer – quello filmico – a ribadire però (profilmicamente) che alle parole seguono i fatti, ai significanti i significati, ai nessi linguistici quelli causali, ereditando nel piano primario l’onomanzia secondaria del suo doppio Ebersdorf. Il nome del dottore allude senza dubbio a Victor Klemperer, autore di LTI: Lingua tertii imperii (che Guadagnino cita insieme a Il perturbante di Freud tra i suoi riferimenti letterari), elaborazione del diario da lui redatto durante la sua persecuzione in quanto professore ebreo, scampato alla morte solo grazie all’intervento costante della moglie ariana (storia in un certo senso riflessa nel film, invertita specularmente). In esso Klemperer aveva documentato l’uso creativo che il regime nazista faceva della lingua tedesca e delle sue pressoché infinite possibilità di coniazione neologistica (soprattutto nel collegamento di parole in composti – Ebersdorf) ai fini di manipolare l’opinione pubblica con eufemismi, acronimi (il titolo stesso gioca con la loro inflazione), motti rituali, parole bandite o ossessivamente riproposte come mantra in grado di insinuarsi subdolamente nel linguaggio del popolo, stregandone i pensieri e quindi le azioni.
I nostri pensieri e quindi la nostra analisi sono a loro volta inguaribilmente ma legittimamente volti, da questo ammaliante gioco linguistico che diventa metalinguistico, alle diverse declinazioni metatestuali di Tilda Swinton che si fanno testuali prospettive di significato. Due di queste declinazioni sono già sotto i nostri occhi: la canonica e accreditata Madame Blanc, nei panni della quale ella si palesa a un livello più cosciente – vertice e immagine dell’intera accademia per il mondo esterno, mediatrice sempre più impotente delle (op)posizioni più estreme all’interno della congrega –, e il più mascherato dottor Klemperer – analista razionale, ligio alla Legge cui continua a ricorrere pur essendone stato vittima, memore di tutto e da ciò affranto. A completare il triumvirato di forze elementari che fa capo all’attrice, (ri)sorge quindi dal profondo e con altrettante mani di trucco proprio la nemesi di Madame Blanc, Madre Markos – selvaggia, megalomane, sopita (non è affatto accreditata, neanche sotto pseudonimo) ma in realtà sempre presente. È, pare, lo stesso Guadagnino – per il resto giustamente restio a pronunciarsi su qualsiasi interpretazione, tutelato dal Duemilaunesimo Emendamento sull’esperienza visiva che penetra direttamente nel subconscio e parla a ciascuno in modo diverso – a suggerire la lettura probabilmente più scontata: si tratta di una chiara rappresentazione della seconda topica freudiana, con la psiche/Swinton e le sue istanze Io/Blanc, Super-Io/Klemperer, Es/Markos. Queste istanze – aggiungiamo noi – vengono riequilibrate, superate e – si badi bene – conservate con ambivalente Aufhebung nell’unità e totalità del Sé jungiano cui Susie perviene, al termine di una violentissima sommersione dell’inconscio che Io e Super-Io osteggiano e che la vede però trionfare sull’inconscio stesso, rivelandosi per quello che davvero è (la decapitata Blanc è ancora cosciente, l’implosa Markos sopravvive nella persona ammutolita e sulla faccia insanguinata del suo braccio destro Miss Tanner, l’oblioso Klemperer viene sollevato dal suo ruolo di privato dispensatore di colpa e vergogna per essere trasceso in un Super-Io collettivo che agisca sul piano sociale – “Das Private ist politisch” proclamavano in quegli anni i movimenti femministi di seconda ondata).
Ora, ci appelleremo anche noi al Duemilaunesimo Emendamento, lasciandoci incoscientemente sommergere dai simboli del film per azzardarne una decodifica – parziale (vista la nostra posizione schizoparanoide di critici neo(ri)nati a queste pagine) e libera da inibizioni di sorta in quanto a realistica premeditazione dei significati –, riemergendo (illesi?) appena prima di annegare sotto gli infiniti strati di un film sconfinato e mai completamente dis-sezionabile. Nel far ciò – se possiamo concederci anche noi un ammiccamento metatestuale – ci renderemo responsabili di una scissione interna a questa stessa congrega di critici, opponendoci all’elegante Pelleschi che ci ha preceduto – razionale e prudente – e assecondando invece le smodate e pericolose pulsioni dell’”onanismo analitico” (metafora mai così azzeccata, viste alcune letture che seguiranno), cadendo in questo modo nel “tranello” dell’Es(egesi) – ci auguriamo con la stessa ingenuità studiata di Susie (lasceremo eventualmente Alessandro Baratti a perdere – non del tutto – la testa alla ricerca di una mediazione).
Torniamo quindi all’articolo dell’incipit e alle tensioni che esso riSpecchia, cominciando dalla sympàtheia, che si manifesta prepotentemente su più livelli, allacciando legami sempre più stretti e conducendo infine (dolorosamente – pàthos) a sovrapposizioni/sintesi che suturano con affilati uncini l’impressionante catalogo di scissioni che ci viene offerto. Abbiamo appena visto come la dialettica Blanc/Klemperer/Markos si risolva in Susie, ma lo stesso Klemperer che esattamente a metà film studiava ambiguamente il nostro articolo è, oltre che momento di trascendenza di un cast interamente femminile in un totale androgino che appiana metafisicamente le differenze di genere, anche anello di congiunzione (o, restando in tema, punto catenella) tra i due ben distinti fil(on)i narrativi che il film percorre, ago che fisicamente si muove da una parte all’altra del Muro per tenerli insieme e portarli a sovrapposizione e scioglimento nel medesimo luogo e rituale. Di questi è evidente l’opposizione: da una parte la storia privata dell’accademia che si realizza in modo eminentemente comunitario e alveare, plurale e solo alla fine centralizzato; dall’altra la Storia vera coscienza collettiva, filtrata dal dolore solitario del dottore e Madre eminentemente grigia, manipolatoria e opprimente della prima (come la madre naturale della protagonista). Il finale attua a questo proposito una revisione: a una Susie rivelata non figlia ma Madre, corrisponde in questa equazione una Storia attivamente generata dalle storie personali – di nuovo “Das Private ist politisch”. È assai peculiare quindi che come fulcro per lo più evanescente di questo secondo piano narrativo, come vincolo amoroso che – pur nella sua assenza – àncora il dottore al passato e si concretizza solo come dolce quanto pericolosa illusione a cui infine rinunciare del tutto, venga scritturata nella parte della moglie Anke la già protagonista argentiana Jessica Harper. Il passato pur ingombrante e rischiosamente pregiudizievole del primo Suspiria è per Guadagnino un mero, amatissimo, fantasma, da cui staccarsi con un netto taglio ombelicale pur mantenendone riconoscibili tratti fenotipici. Guadagnino conserva e supera Argento con magistrale Aufhebung e, non pago, incardina (intesse) una riflessione sull’operazione stessa del remake, oggetto perturbante in quanto sintesi di familiare ed estraneo (unheimlich, lemma polisemicamente ambivalente tanto quanto Aufhebung), atto di amore filiale e matricidio, coreografia nuova e autonoma pur nel suo richiedere che il discepolo rinasca ad immagine (più che mai solo apparente) del suo creatore originario (Susie finge amorevolmente di essere uno strumento per il ritorno del vecchio e in realtà, danzando il rituale di Blanc, consacra sé stessa e addirittura ribalta i rapporti di parentela).
Il sintetico (e non solo per il lattice) Klemperer è protagonista anche della sequenza iniziale (dedicata essenzialmente al primo piano narrativo) e di quella finale (dedicata al secondo), luoghi di significazione come sempre privilegiati. Nell’ultima scena prima dei titoli, il cuore fratto di Anke e Klemperer – la pera fatta a fette – germoglia, rinato sentimento universale, in un presente forse utopico che riesce a fare i conti con il passato (il cuore stesso, ben visibile) e che ha abbattuto le barriere divisive. Un incantesimo che Susie estende ulteriormente con la sua imposizione di mani nella scena a sorpresa dopo i titoli, trascendendo la suddivisione in capitoli e legando la potenza del film a un futuro fuori campo, ultima scissione che la sua definitiva incarnazione della Sintesi risolve: il confine – sancito dai titoli – tra (visione del) film e (ritorno alla) realtà. Sintetica è anche la sequenza iniziale, ma in modo decisamente più leggibile (è una seduta che psicanalizza il film stesso) e più sicuramente plausibile. Essa ci presenta subito le scissioni principali, interconnesse: una mente schizofrenicamente posseduta, una città squarciata da un Muro (Żuławski centellinava più sottilmente l’analogia), una frazione armata ambivalente (Fraktion come secessione o come parte di un tutto organico) che nella controversa fairest of the seasons dell’Autunno tedesco le sconvolge entrambe, suscitando attrazione e repulsione perturbanti, divisa tra il socialismo della vocazione e l’asocialità degli atti. L’unità va ritrovata allora con il parricidio del Male antico e genitore – la Falsa Madre non morta e lo spettro vivo del nazismo – e con la rifondazione di popoli (Volk) assenti dalle scene dalla suddivisione della Germania nel 1949. La schizofrenia di Patricia si manifesta – ancora una volta – primariamente sul piano linguistico, nel dualismo netto tra tedesco e inglese che prosegue incessante e plasma le fratture di tutto il film, risolto dapprima con il francese – lingua dell’incontro e dell’amore tra Susie e Madame Blanc, della danza e quindi della sintesi che con essa si realizza (la vraie chose) – e infine con il progressivo trilinguismo di Susie (dualismo perduto nella localizzazione italiana, che ha la pretesa sconsiderata e arrogante di anestetizzare ogni divergenza con il suo doppiaggio indiscriminato).
Attraverso gli scritti di Patricia emerge poi l’altra scissione che la sua mente stava tentando di compensare, incapace di trovare un equilibrio tra la RAF da una parte e il femminismo che si cela dietro la non troppo velata allegoria della congrega dall’altra (la nostra distribuzione è qui invece favorita, grazie al famoso slogan femminista italiano che insiste sulla medesima analogia ed è quindi perfetto per la campagna pubblicitaria del film). Questo bipolarismo viene trattato in modo semplicistico e riunificato in una sommaria equiparazione da tutti gli uomini del film, poliziotti e dottore – il quale ci presenta una diagnosi linguistica (gruppi di persone che si riuniscono a scopi criminali e chiamano questo “magia”) –, e comporta la rimozione di Patricia dal suo ruolo di rilievo all’interno della compagnia, proprio a causa del suo fallimentare tentativo di sintesi. La RAF era un’organizzazione a maggioranza femminile (per quanto non larghissima) nella quale le donne ricoprivano le stesse posizioni e svolgevano gli stessi compiti degli uomini – con pari se non maggiore dedizione alla lotta armata, per mostrarsi secondo alcuni “più maschili degli uomini” e sostenere così una totale e indifferenziata comunione di intenti –, venendo perciò stigmatizzate dalla classe politica con le stesse critiche sessiste che venivano rivolte al femminismo in crescita. Il femminismo era però già da diversi anni entrato nella cosiddetta seconda ondata, che dopo il traguardo del suffragio universale vedeva il fronte frastagliarsi in posizioni, campagne e lotte diverse e a volte inconciliabili, ma tornare generalmente compatto nel rivendicare non tanto l’uguaglianza della donna (ferma restando quella dei suoi diritti) quanto il riconoscimento delle sue differenze, la parità e non l’assimilazione, l’unità (eventualmente) e non l’identità: a tutti gli effetti una Aufhebung capace di superare l’opposizione antitetica conservando dialetticamente in sé i singoli caratteri (il gruppo “Rivolta femminile” di Sputiamo su Hegel forse dissentirebbe). Il punto cruc(ial)e di questa rivendicazione è senz’altro la riconquista del proprio corpo (quale teatro migliore allora di un’accademia di danza?), la ribellione a una dominazione che comincia nei rapporti familiari e sessuali, l’emancipazione della donna su un piano individuale necessaria per poter conquistare quello sociale.
La biodiversità dei femminismi è ben rappresentata nell’ecosistema dell’accademia/congrega, animato da diverse correnti che sembrano infine privilegiare una prospettiva ecofemminista: l’opposizione all’universalità del patriarcato e ai dualismi con cui ha sempre esercitato il suo potere di predominio (l’uomo superiore alla donna, la cultura superiore alla natura, la mente superiore al corpo…) equiparando donne, etnie e classi sociali inferiori (l’”altro”, il secondo membro dei vari binomi) alla natura e legittimandone così la sottomissione . L’ecofemminismo – a sua volta sfaccettato – persegue di regola una visione olistica (sintetica) del mondo e una rivalutazione dell’essenzialismo di genere, ovvero il suddetto riconoscimento di caratteristiche e qualità proprie al genere femminile – in questo caso legate primariamente alla perpetuazione della vita –, criticato soprattutto in tempi più recenti da altri femminismi e fronti interni allo stesso, che le ritengono invece imposizioni sociali. Inoltre esso guarda alle società preistoriche matriarcali fondate sul culto della Dea Madre (o di una trinità di Madri?) e sulla cooperazione invece che sulla competizione patriarcale (da qui l’incompatibilità col terrorismo), tanto che alcune frange più spiritualiste sono confluite in reali movimenti neo-pagani e di stregoneria moderna (Starhawk, Wicca).
Questa riconquista del proprio corpo in chiave ecofemminista si realizza nella parabola di Susie, portatrice di scissioni e legami come Patricia ma in grado di attuare e financo incarnare la sintesi. Susie recide i nodi ricamati che la legano alla sua Falsa Madre naturale – invadente, repressiva e catatonizzante (“una Madre può prendere il posto di chiunque, ma nessuno può prendere il suo posto”: il contrario della perpetuazione, un motto che Susie ribalterà a proprio favore nel finale) – e si separa dalla fede scismatica di lei per eleggere da sé la propria vraie mère (topos mitologico che indica predestinazione e divinità): una Madame Blanc che della sintesi e della creazione ha fatto la sua missione. Dopo aver sviluppato, durante le lezioni di istintività, un legame decisamente edipico con la (madre) terra (che la Madre delle pulsioni nasconde) e averlo trasceso – fasciata in corde da bondage – con i salti aerei di un rito della Primavera, ella affronta le proprie nozze alchemiche di rubedo (i cui celebranti vestono corde di capelli e intestini) con una catabasi che vira a un rosso uterino. Qui ella rinasce – inquadrata come una Madonna del Sacro Cuore – spalancando un’enorme vagina pectoris grondante sangue mestruale e affermando la sua natura unica e giammai passiva di Creatrice (visioni e significati in cui non possiamo fare a meno di ritrovare l’ultimo Refn [1]). Una lettura genit(ori)ale che Patricia immancabilmente seminava nella prima sequenza (“Mi squarteranno e mangeranno la mia fica su un piatto”) e che si trovava già embrionalmente sottesa in momenti precedenti a questa sua apoteosi, attraverso la sovrapposizione di organo femminile e mano, che sancisce una volta di più il ruolo squisitamente attivo/creativo del primo (si vedano le stimmate sul logo della compagnia, che peraltro rappresenta una penetrazione tutta femminile). Le mani popolano sogni di castrazione e di partenogenesi, le mani sono il veicolo del rapporto amoroso e iniziatico – menarcale (cfr nota) – tra Susie e Blanc (c’è pure un bacio reciproco per interposta mano), le mani (e non già il sesso) sono l’incarnazione scelta da una Susie ancora acerba, le mani manipolano a proprio piacere gli aghi-uncini che per pari opportunità e ulteriore immolazione di pudore analitico si possono intendere come falli totalmente piegati al volere delle streghe (aghi usati per tagliare invece che per unire, cosa per cui Susie biasimerà le sue figlie e chiederà perdono al dottore). Azzardo tra gli azzardi: questa stessa simbologia si potrebbe riconoscere perfino nella locandina ufficiale del film, che – per ribadire l’importanza del linguaggio – non rappresenta altro che una lettera esse a mo’ di squarcio sanguinante, crediamo non tanto per il trattamento grossolano riservato da qualche agenzia di doppiaggio ai suoi dialoghi, quanto per alludere a labbra di bocca pronuncianti parole (la bocca che vomita sangue è un’altra delle immagini oniriche inviate a Susie) che diventano labbra di vulva partorienti azioni. La lettera esse poi alluderà certamente a “Suspiria” – e magari proprio al film argentiano, Sacrificato sull’altare della Mater Sussequorum (scoraggiando simili supposizioni secondarie: “Susie” sinuosa sgorgante sangue) –, ma se torniamo al tedesco, dove peraltro si pronuncia “Es” come l’istanza freudiana, possiamo riconoscervi l’iniziale di “Scheide” o del più volgare “Spalte”, comunemente usati in luogo del latino “Vagina”, laddove “scheiden” significa “dividere” e “Spaltung” indica sia la scissione come fenomeno psichico sia, per antonomasia, la divisione delle due Germanie (Żuławski non aveva inventato nulla). La conversione di sterili tagli di separazione in fertili aperture di rinascita (wiederöffnen, open again) si può allora considerare il sublimato più essenziale (la sintesi) di questi 152 minuti di incessanti significati, almeno per quanto riguarda la tensione della sympàtheia (quasi una logline, da apporsi sotto il “Tremate, le streghe son tornate!”).
[1] Segnaliamo a tal proposito questo recente video ad opera di Orlando Ciglaf (regista (s)conosciuto probabilmente solo per aver documentato negli anni ‘70 gli ultimi mesi di vita e attività artistica del poeta Igor Oldfalcan, in una serie di Super 16mm oggi considerati perduti). Se si chiude un occhio sugli alterni risultati a tratti indecifrabili e sulla fattura incerta, si tratta attualmente – chissà perché – dell’unico tentativo a noi noto di tessere un filo rosso (da bondage) che da The Neon Demon conduca a Suspiria attraverso l’invero dissacrante (fuso di) Maleficent.
E veniamo dunque alla seconda tensione, che in realtà non siamo riusciti a dividere con precisione chirurgica dalla prima, dal momento che è il sapiente entrechat delle due a tessere punto per punto in ogni istante l’armonico ordito di un film che si muove sempre in impeccabile quanto inscindibile pas de deux tra forma e contenuto. Stiamo parlando proprio della tensione linguistica espressa dal titolo dell’articolo (“L’omicidio comincia da una cattiva parola”) e ampliata da Madame Blanc nella chiaramente centrale lezione a due con Susie, che celebra il movimento come linguaggio, la danza che si fa parola e quindi incantesimo, modellando a propria immagine la realtà esterna (per vibrazione simpatica). Guadagnino, abile coreografo della cinepresa, ricama il suo spazio con grande personalità ed eleganza ma senza rinunciare per un solo momento alla pregnanza, consegnandoci scene at-terrenti non tanto per suspense e orrore, quanto per la magia – potente come una sferzata sventrante di uncino eppure sottile come la punta di un ago – con cui le loro immagini travolgono lo spettatore, insidiando in lui i propri significati come in un rituale di possessione. Citiamo a memoria qualche esempio di questa cura formale: la frattura è perseguita costantemente anche a livello prettamente visivo, fin dalle prime sequenze (le foto e l’armadietto di Klemperer; la dissolvenza che divide a metà Susie mentre si sfrega il petto fratto ma non ancora aperto, prima dell’audizione); c’è a questo proposito un effetto split-focus diopter significativamente ambivalente, che affianca e separa Susie e Madame Blanc preludendo al loro processo di avvicinamento e sintesi, che si completerà con plongée perfettamente simmetrici; il plebiscito delle streghe viene ripreso con un oscillante piano sequenza che tesse un fragile filo di unione; c’è una grande attenzione per gli specchi – strumenti perturbanti per eccellenza e qui ancor di più, nel loro ambivalente partorire immagini sempre fratte, far rinascere alterità deformi, duplicare e annullare – usati tra l’altro spesso per spezzare su due piani non comunicanti il normale campo-controcampo dei dialoghi.
Assistono il regista nell’evocazione del film incantatori di pari maestria, da un Thom Yorke rinato compositore da film con il suo grimorio di ostinati formulaici di gobliniana memoria, a un Damien Jalet esperto intelaiatore di intrecci di carne ariosi e serpeggianti, selvaggi ed estatici, capillari e pulsanti. È però tutta la congrega di cui fanno parte – il fronte pro-filmico – a dimostrare sensazionale comunione e affiatamento; aggiungiamo – uno per tutti – Walter Fasano, i cui tagli di montaggio danno vita all(‘unità dell)a scena più memorabile: l’intarsio, in trapuntato equilibrio en pointe, della pulsione di vita di Susie – alla sua prima magnetica prova da étoile – e della pulsione di morte di Olga, l’allieva scissionista che ne subisce l’attrazione gravitazionale e non può fuggire al richiamo della sintesi – scena che ovviamente si svolge per metà nella stanza degli specchi frangenti. Ma non è solo per questo feticismo speculare già peculiarità di un certo altro film, che possiamo definire Suspiria anche un horror sulla bellezza. Nella medesima stanza avviene infatti una disputa sulla categoria del bello, che Madame Blanc ritiene incompatibile con una danza veramente impegnata a essere nel presente e a modificare così la Storia con i suoi fo(rm)u(l)etté magici, ma che Susie infine ad essa ricongiunge, costellando di “It’s beautiful” la sua performance sabbatica letteralmente epocale – a detta di Markos né vanitosa, né arty –, mentre danza al centro di un nuovo cosmo che intorno a lei ruota. Un’autentica rivoluzione copernicana estetica, ancora più potente se si considera la crudezza della scena, il presunto iato tra orrore e bellezza che l’arte può sintetizzare. “Das Private ist politisch” si può allora riferire anche al film stesso: se Argento si isolava in un eremo alpino ad esercitare il suo affascinante immaginario, entrando sì nella storia (del cinema), ma solo secondariamente, come pioniere di uno stile sfrenato, di un phenomenale estetismo allucinato e anarchico, fieramente libero da qualunque logica e scisso da qualunque implicazione o contestualizzazione, l’intero cinema di Guadagnino nella Storia (universale) affonda subito corpo e anima, ricucendo gesto artistico (estetizzante, profondamente personale) e gesto politico, portando nel nostro caso il suo sogno privato e innocuo di quattordicenne a confrontarsi con i grandi temi di un’epoca di cui la nostra è figlia, intervenendo attivamente sul presente (l’ultima scena prima dei titoli) e sul futuro (la scena dopo i titoli).
E nel presente riemergiamo noi, tirando le fila di questa travagliosa seduta di ipnosi, forse un po’ incerti sulla rilevanza clinica delle immagini che ha partorito – inficiate probabilmente da meccanismi di proiezione ed empatia (del resto, non è forse questo il fine ultimo di ogni proiezione cinematografica?) – ma senza dubitare per un istante del transfert che un film così divisivo e polarizzatore necessariamente provoca, bandendo (sinteticamente) la in-differenza. Transfert che, nella sua ambivalenza, incantava subliminalmente lo spettatore già dal Die Psychologie der Übertragung sulla scrivania del dottore, arpione uncinato in un film che non può che attrarre E repellere. Si tratti di effusioni di meraviglia per la sua audacia e magniloquenza o di sbuffi di disappunto per la sua sconsideratezza e presunzione, la Madre dei Sospiri sarà sempre incinta.