Horror, Thriller

SHELTER

Titolo OriginaleShelter
NazioneUsa
Anno Produzione2009
Durata112'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia
Costumi

TRAMA

La psichiatra forense Cara Jessup, profondamente segnata dall’assassinio del marito, affronta il caso di David, un giovane sulla sedia a rotelle. A tratti il ragazzo assume la personalità di Adam, la vittima di un efferato omicidio avvenuto molti anni prima. Delirio di uno psicopatico o reale incarnazione di un’altra identità? Cara è convinta della prima ipotesi ma le cose, ovviamente, non sono come sembrano.

RECENSIONI


Autori di apprezzate serie Tv in Svezia [1], Måns Mårlind e Björn Stein si applicano al thriller/horror sul tema dell’identità puntando sul one-woman-show di Julianne Moore. Shelter è diviso nettamente in due parti. Nella prima (thriller) impagina i parametri di genere, avvolgendoli in un’ombra di leggera consapevolezza: la protagonista cita esplicitamente i film hollywoodiani sulle personalità multiple, suo fratello si intrattiene nella visione romeriana de La notte dei morti viventi (1968). Aggiungiamo che la dottoressa Jessup (Julianne Moore) intavola un confronto lecteriano con David (Jonathan Rhys Meyers); la sedia a rotelle del giovane è un elemento ambiguo, sia rassicurante che inquietante: sottolinea la diversità fisica tra i due e mitiga la pericolosità del “mostro” ma, dall'altra parte, semina il dubbio sul passato e la reale provenienza del ragazzo. Non dimentichiamo che Julianne Moore ha interpretato Clarice Starling in Hannibal (2001) di Ridley Scott, e allora il contesto cinefilo c'è tutto. La prima ora è un lungo elenco di archetipi del serial killer movie, anche se David non si configura precisamente come assassino seriale: dal confronto di caratteri a due all'interrogatorio psicanalitico, passando per il tragico trascorso della protagonista (il marito ucciso senza motivo) e la catena di indizi dal valore simbolico ed esoterico (la finestra a forma di stella). La messinscena statica, che si fregia di vari ambienti ma focalizza sugli incontri Cara/David in campo/controcampo, introduce il nucleo tematico del film: scienza o paranormale? I filmati che testimoniano le convulsioni nel volto di David sono sgranature dei fotogrammi o incursioni nel sovrannaturale? Le assunzioni di nuove personalità, e le crisi del paziente, scandiscono il ritmo della pellicola, che i registi eseguono con mano invisibile e convenzionale (apparizioni improvvise, sorprese a fine sequenza, uso del sonoro) secondo il canone del thriller americano.


Nella seconda parte (horror), Shelter comincia progressivamente a barcollare fino al deragliamento. Deviando dalla linea identitaria di partenza, singolare ma comunque chiara e riconoscibile, il film tenta una sovrapposizione di spunti: sempre introdotti dal crescendo musicale, vediamo scorrere una strega e altre figure freak (caricature di un’estetica deltoro-burtoniana, dalle battute al make-up), una serie di omicidi da B-movie,  la confusa spiegazione storica della vicenda, il tentativo di rispolverare lo scontro scienza-fede, infine addirittura un bimbo in pericolo. Insomma la concatenazione degli eventi diventa illogica, superando anche la sospensione dell'incredulità che si deve al paranormale: il plot si fa ingarbugliato, non cervellotico ma semplicemente poco chiaro, le rivelazioni sono continue quindi ipertrofiche, esagerate. Il finale è tirato via all'insegna dell'improbabile, con immancabile “sorpresa” in ultima inquadratura. Una deriva che accoglie anche scene scult, come la bimba che illustra alla madre la perdita della fede. 

Arriviamo quindi alla fondamentale sceneggiatura di Michael Cooney. Il responsabile dello script di Identity (2003) di James Mangold ci riprova con gli stessi argomenti. E con la stessa ambizione. Dopo un’altra matrioska dell’identità (tutto Identity, la seconda parte di Shelter), il metodo Cooney appare chiaro: intervenire sul genere dall’interno, lavorando dalla parte dell'industria (ancora il riferimento alle pellicole di Hollywood). Lo sceneggiatore inglese vorrebbe frammentare, sovrapporre e mescolare gli elementi narrativi per rinnovarli, offrendo sì un deragliamento, ma consapevole e affascinante. Invece fa solo accumulazione di materiale altrui, creando forme indefinite: come le macchie di Rorschach, ognuno ci vede quello che vuole. O niente di particolare.

[1] Il maggiore successo, Spung (2002-2003), racconta una serie di adolescenti “cattivi” costantemente ripresi da camere a mano.