Documentario, Sala

PUSSY RIOT

Titolo OriginalePokazatelnyy protsess: Istoriya Pussy Riot
NazioneRussia/ Gran Bretagna
Anno Produzione2013
Durata88'
Fotografia

TRAMA

La storia di Nadia, Masha e Katia del collettivo artistico Pussy Riot.

RECENSIONI


Uscito in Italia alcuni giorni prima della liberazione di Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova (grazie a un'amnistia che, in vista del cartellone olimpionico di Sochi, sa di calcolata propaganda), alla base di Pussy Riot, documentario prodotto e diretto da Pozdorovkin e Lerner premiato al Sundance Film Festival, oltre all'interesse per la sorte delle femministe punk c'è anche - dichiarano gli autori - una riflessione su quei luoghi in cui arte e politica si incontrano; come la cattedrale moscovita di Cristo Salvatore, nella quale il 21 febbraio 2012 alcune componenti delle Pussy Riot - che si definiscono «una forma d'arte di protesta» contro un sistema politico che perseguita «i diritti umani fondamentali» - intonarono la loro "preghiera punk" («Madre di Dio, liberaci da Putin») con il volto coperto da colorati passamontagna: una protesta provocatoria e pacifica contro la rielezione di Putin, un attacco non alla religione in sé ma all'«unione fra Stato e Chiesa» che la cattedrale rappresenta. Arrestate, additate dai fedeli ortodossi come "blasfeme", "possedute", "bolsceviche", ma sostenute fortemente dalla comunità internazionale sollevatasi in loro difesa (tantissimi i nomi illustri: Madonna, Yoko Ono, Peaches...), Nadia, Masha e Katia vengono giudicate colpevoli di «teppismo motivato da odio religioso» e condannate a due anni di reclusione al termine di un lungo processo (Katia sarà liberata in appello).


Nonostante si limiti a contrapporre due fazioni di immagini (e i rispettivi correlativi sonori e grafici: il ticchettio di un timer - una bomba innescata nella lunga notte russa - contro i rintocchi delle campane; KILL ALL SEXISTS versus ORTHODOXY OR DEATH) più una (quella di Putin che incombe come primo paladino dell'ortodossia e dei templi del «regime» russo: nazionalismo, sessismo, omofobia) e insista sull'irriducibilità delle posizioni [1] (le «due Russie - come le chiama il padre di Katia - che si odiano e rifiutano di parlarsi e di capirsi») attraverso una cristallizzazione del mondo efficace ma che eccede forse nella semplificazione, il documentario centra comunque l'obbiettivo ricostruendo la vicenda delle Pussy Riot senza confinare le protagoniste nello sfondo («I don't want to be a background image»): ne sintetizza sapientemente il divenire politico, stringe il campo sui loro limpidi volti appena intaccati dalle sbarre e dai riflessi della ressa silente dei giornalisti e dei fotografi, offre - rilanciandole - le argomentazioni del loro dissenso, fino ad auscultarne le confidenze dette quasi furtivamente sotto le intimidazioni delle guardie [2]. «Un sistema che attacca tre giovani donne che si esibiscono all'interno della cattedrale di Cristo Salvatore, è un sistema che ha paura della verità e dell'onestà che quelle donne rappresentano»: i primi piani come testimonianze della (r)esistenza nella lotta, della salvezza nella ricerca della verità.

 

[1] Nadia: «Da un lato ci sono gli architetti della stabilità apollinea; dall’altro, i cantori (punk) del dinamismo e del divenire», http://temi.repubblica.it/micromega-online/lettere-dal-carcere-pussy-riot-scrive-a-slavoj-zizek/.

[2] Per quanto riguarda il processo, il materiale selezionato è quello filmato dalla RIA Novosti, l'agenzia di stampa nazionale ora soppiantata, per volere di Putin, da Russia Oggi, più vicina alle posizioni del Cremlino.