
TRAMA
La vita di Parthenope dalla sua nascita negli anni Cinquanta ai giorni nostri. Un’epopea femminile priva di eroismo ma innamorata della libertà, di Napoli e dell’amore.
RECENSIONI
Mai amato il cinema di Sorrentino, un regista di talento che fa film che non apprezzo, mi dicevo con serenità e senza arrivare a quegli eccessi che diventano fighetti loro malgrado (la posizione dei Cahiers, quasi una fatwa: «Sorrentino est au cinéma ce que Rondò Veneziano est à la musique, en pire»). Questo fino a The Young Pope e The New Pope nei quali l’autore mi pareva trovare il suo passo, consegnando ai tempi dilatati della serie le sue intuizioni visive, con la narrazione finalmente sganciata dalle esigenze perentorie del timing. In This Must Be The Place, per esempio, era chiaro che la rilevanza dell’apparato visivo soverchiasse quella del racconto, ma a quest’ultimo il film continuava a soggiacere quasi suo malgrado e in modi a volte piattamente automatici. Nei due Pope, in virtù del minutaggio “infinito”, si invertivano i termini secondo una logica che, peraltro, si rivelava paradossalmente anti-seriale, perché, come sosteneva Sorrentino, si trattava davvero di un unico, lunghissimo film, tanto che i compulsatori normali di tali prodotti in molti casi mollavano la presa dopo poche puntate. Non c’era nelle due miniserie il consueto sviluppo verticale del racconto: questo si muoveva, discreto, dietro un centro, focalizzato sulla visione, sulla messa in scena e su un protagonista che si faceva depositario di un immaginario e sua diretta emanazione. Cosa che accade quasi sempre in Sorrentino, certo, ma non con quella felice astrattezza che i Pope mostravano: la stessa che si ritrova in Parthenope che poggia su un personaggio-perno attorno a cui ruota tutto. Dove per tutto intendo non solo un mondo e la sua storia (ancora una volta autosufficienti, senza quasi altrove), ma anche ciò che comportano, a cominciare dal consueto eloquio aforistico che qui scivola naturale, finalmente, senza enfantizzarne le virgolette, ogni dialogo, ogni snodo, ogni sipario sfumando nel sorriso disarmante di Parthenope, la vera chiusura di ogni discorso. Altro che la risposta pronta: è con quel sorriso che Parthenope smonta le retoriche altrui per imporre la propria; è quel sorriso il filo rosso che offre continuità e senso ritmico al film. Un film che arriva all’indomani di È stata la mano di Dio, un lavoro non pienamente convincente perché, al di là delle belle idee e della sincerità (che gli riconosco), mi suona vittima della già patita tendenza a una comoda frammentazione e a un bozzettismo che ne smorzano il respiro.
In Parthenope, invece, per la prima volta il cinema-cinema (pardon) di Sorrentino mi pare esprimersi con una fluidità mai sperimentata prima: la stessa fluidità con la quale la napoletanità riesce a essere mitizzata (Parthenope è una delle sirene: sì, proprio quelle del canto ammaliatore dell’Odissea) e nello stesso tempo incarnata in creatura viva (la protagonista che, certo, nasce dalle acque come una dea, ma diventa professoressa di antropologia), così come la geografia, con levità (una parola che mai prima avrei saputo associare a Sorrentino) sa farsi a un tempo Luogo (esempio: Capri) & Simbolo (= la caducità della giovinezza). C’è molto Fellini in questa mistura, come al solito, ché sarebbe anche superfluo ricordarlo, se non fosse impossibile non sottolinearlo di fronte a questo che pare (dopo La grande bellezza = La dolce vita ed È stata la mano di Dio = Amarcord) il suo Roma: Napoli (come la Capitale felliniana) è dunque coro alle domande sulla vita, con lo stuolo di figure&facce vere&finte a contorno (dal Comandante - Achille Lauro? - a Greta Cool - Sophia Loren? -), col momento ecclesiastico-miracolistico (e la nostra con i paramenti sacri ad adornarne la nudità - che è link immediato -), con quella sequenza magnifica in cui la macchina da presa attraversa i bassi, con quell’onirismo leggero (il frammento Gloria Malva sa tantissimo di Giulietta degli spiriti, però). Anche se poi mi viene anche da dire che Parthenope sta a Sorrentino come Malèna sta a Tornatore, entrambi suonando come apoteosi e sintesi perfetta di una maniera, ma soprattutto perché le loro eroine sono immagini di una bellezza che incarna quella di una civiltà, donne-sirene che catalizzano lo sguardo di chi le circonda, ammaliando tutti, uomini o donne che siano. Parthenope - che se la fa col Popolo, col Capitale, col Clero, Con la Mafia, con la Politica, con lo Star System, con la Cultura - è Napoli in tutte le sue espressioni («Mi chiamo Parthenope, non mi vergogno mai»), donna-città, senza scuorno, di tutti e di nessuno.
Tutto questo, ribadisco, messo su un piano d’opera che scivola felicissimo sulla superficie dell’immagine (ciò che da sempre conta di più per Sorrentino), mosso da un’ispirazione che tutto legittima, a cominciare dall’ode al desiderio (leggi: la fuggevol età del -) che impera e sembra prescindere da tutto, persino dal legame familiare, con l’ombra incestuosa che suona normale-mortale da subito poiché epica anch’essa. Perché, ripeto, c’è il mito in questi personaggi (e quella casa sul Golfo è il loro Olimpo e quel John Cheever a Capri un Omero che si mimetizza nell’opera) che pure, però, sono corpi da subito, anche se l’amplesso di Parthenope è sempre fuori campo, lei come vestale o santa vergine (agli sguardi) anche quando resta incinta. Anche dopo l’aborto. E tutto questo poema concreto si dispiega senza un raccontare puntuale, mostrando (non descrivendo la natura dei rapporti tra i personaggi e squadernando il chi-è-chi) in virtù di questa narrazione solo accennata, evasiva, rapsodica, in equilibrio. Felliniana (rieccolo). Una prova di libertà che trova una scelta felicissima in Celeste Della Porta, perché sconosciuta e non intaccata da visioni preventive o possibili sovrapposizioni divistiche. In questo senso la scelta di farne interpretare la versione anziana (e disillusa e umana e non più mitologica e - perciò - lontana da Napoli) a Stefania Sandrelli diventa a maggior ragione significativa anche come espressione di una verità storica inoppugnabile, quella del cinema: è ancora Parthenope, ma è anche l’attrice e quello che rappresenta nel tempo (il desiderio, la fuggevol età del - ). Del resto sui titoli di coda parte Gino Paoli, e non dite che è una coincidenza.

Diciamolo subito: Sorrentino non ha mai avuto la minima sensibilità cinematografica. E quando l’ha avuta (L’uomo in più) è perché avevo potuto installarsi su un decennio di cinema napoletano vero fatto da uomini-cinema (non solo registi) ottimi e abbondanti. Avendo un immaginario congelato a quello di uno che era adolescente negli anni Ottanta (pendente in direzione del dark e della new wave senza poi veramente cascarci dentro davvero), ha un’idea di cinema da adolescente, e cioè come una cosa che messa nelle mani del regista permette di realizzare pezzi di pirotecnia visuale più o meno gratuiti: movimenti di macchina acrobatici, monumentalità assortite che sembrano essere uscite da un Paul Thomas Anderson mezzo addormentato dalla digestione postprandiale di una domenica agostana a Panarea, rese digeribili da un sentimentalismo spalmato un po’ come si stucca una parete. Senza più Netflix alle calcagna (come in È stata la mano di Dio), in questo nuovo film su Napoli Sorrentino spinge questo suo priapismo stilistico alle soglie della catalessi, fregandosene di qualsiasi ritmo, limitandosi a compiacersi delle sue magniloquenze registiche, sfogliandole tutte una dopo l’altra e prendendosi il tempo, l’interminabile tempo, di mettere pomposamente in posa ognuna di loro, manco fosse Sergio Leone in C’era una volta in America.
Eppure. Eppure quasi tutti i film di Sorrentino (certo: non quegli aborti innominabili con Sean Penn e Michael Caine) in un modo nell’altro qualche elemento di interesse finiscono per avercelo. Va bene, non è cinema, ma se un regista afilmico affronta con strumenti anticinematografici il tema più cinematografico di tutti (la rappresentazione di una città, che sia Roma o Napoli), vale comunque la pena di prestare attenzione e valutare attentamente l’attrito che ne risulta. Come Roma prima (La grande bellezza), anche Napoli adesso viene semplicemente esclusa dallo schermo: la città non è che un aggregato di narcisismi, è quell’illusione ottica che si crea quando una coscienza, e cioè un occhio che si ritrae dal mondo (la protagonista è un’antropologa, sì, ma un’antropologa orgogliosamente esistenzialista pre-strutturalista), incontra un’altra coscienza che si ritrae dal mondo, e poi un’altra ancora, e così via fino a formare quella che nel film su Maradona assomigliava a una rete (pun intended), mentre in Parthenope è il ritratto dell’omonima protagonista, giovane donna che incarna la Grazia perché è un involucro che contiene e rivela il nulla, ed essendo nulla si può ritrarre solo con un sistema di differenze che la separano da personaggi che in un modo o nell’altro le assomigliano.
Che il centro, foss’anche vuoto, sia l’interiorità, e che l’esteriorità sia convocata solo derisoriamente come pantomima, come tentativo disperato di canalizzare gli sguardi in un punto definito prima che immancabilmente questo slitti su più punti di osservazione che si articolano in costellazione architettonica (pattern visivo, questo, riscontrabile in molte scene: lo struscio della giovanissima Parthenope in centro assediata dagli sguardi maschili, il finto miracolo davanti a San Gennaro, il coito forzato dei due giovani circondati da una folla che li osserva e li incita), basta e avanza a bollare ancora una volta l’immaginario sorrentiniano come letteratura, e non cinema. Eppure. Eppure, siamo sicuri che le città italiane (non necessariamente solo Napoli, ma qualunque grande città italiana di oggi) nel 2024 siano qualcosa di molto diverso da questo aggregato di narcisismi, da questo mancare l’incontro tra interiore ed esteriore, dal mettere ossessivamente in vetrina questa mancanza in ogni minuto ed elevarlo a sistema di convivenza sociale? Non sarà per caso che Sorrentino, ahinoi, ce lo meritiamo?
Effettivamente, il momento decisivo della vita di Parthenope è un utopico momento di conciliazione di interiore e esteriore. Si tratta del lunghissimo, estenuato ballo a tre, in un’estate adolescenziale, con il fratello che si suiciderà di lì a poco e con lo spasimante friendzoned. Il momento, irripetibile, in cui il nulla trova l’unica identificazione possibile, quella di un “né-né”: né narcisismo infantile che vuole solo l’immagine allo specchio (il fratello), né l’ingresso nel paradigma “edipico”, nella coppia regolare come scambio simbolico. Il non poter conservare questo equilibrio omeostatico sarà l’origine, per Parthenope, di una malinconia lunga una vita, e della compulsione a (come diceva in L’amico di famiglia un agonizzante Geremia de’ Geremei) inseguire la bella frase: l’ossessiva ricerca della battuta brillante, del motto arguto, è la vendetta dello specchio contro la parola, è il linguaggio che si sottrae alla propria vocazione di alfiere della Legge, della Comunicazione, della Società Costituita, per diventare narcisismo con altri mezzi, fiammata in cui il nulla dell’interiorità si vendica del non potersi specchiare in se stessa, e dunque dell’essere sempre troppo ingombrante, come il gigante neotenico che il professore cui Parthenope deve la sua carriera accademica tiene da una vita chiuso in salotto. E così, la bella frase che definisce tutte le belle frasi e che dunque chiude il film, non può non indicare esplicitamente questo movimento di perdita e recupero attraverso la parola: «è per potersi salvare che l’amore ha finto il proprio fallimento».
Tutta letteratura e solo letteratura, certo. Ma a forza di dai e dai qualche idea cinematografica, ovvero un’idea al contempo dinamica e spaziale, scappa persino a Sorrentino. Per esempio quella posta in apertura, che riprende esplicitamente l’inizio di È stata la mano di Dio e il suo movimento dal mare alla città che si rivelava essere visitazione angelica in procinto di prendere corpo. Prima che Parthenope nasca, nonno Achille Lauro (e chi sennò poteva ricoprire il ruolo di fondatore, in un film su una Napoli contemporanea sfatta fino a perdere definitivamente visibilità e farsi ritrarre solo in forma di donna mai nata?) fa arrivare in barca una principesca (viene da Versailles) carrozza vuota dal mare alla sua villa sulla costa. L’involucro è pronto, e l’anima che lo abiterà non si confonderà mai con lui: la bellezza del corpo non sarà che segno dell’assenza che gli sta dentro. Se fossero coincisi, avremmo avuto cinema anziché letteratura: accontentarsi, però, potrebbe non essere così sbagliato.
