Commedia, Fantasy

OKJA

Titolo OriginaleOkja
NazioneCorea del Sud/ U.S.A.
Anno Produzione2017
Durata120’
Fotografia
Montaggio
Musiche

TRAMA

La Mirando Corporation ha messo in produzione un super-maiale e indetto un concorso per l’esemplare migliore. Dopo dieci anni, vince Okja, allevata fra le montagne coreane da una ragazzina: quando la Mirando la porta via, va a liberarla, aiutata da alcuni terroristi animalisti.

RECENSIONI

Costoletta vegetariana

Rispetto a The Host, il kitsch-Bong innerva l’idea motrice tralasciando (per fortuna) l’alchimia sconsiderata di registri. La sua costoletta vegetariana opta per due salse: quella grottesca, con cui descrive ed irride vertici e modi della multinazionale che lancia sul mercato il nuovo prodotto, e quella del cinema per ragazzi, in cui sfrutta a piene mani la carineria nel rapporto infanzia/bestie. Dietro, sotto, sopra, messaggi animalisti: l’iter dei super-maiali non differisce da quello degli altri suini e Bong vi ricama la commozione con orrore, non risolvendo l’ambiguità di un messaggio anti-carnivoro che abita solo i terroristi, non la protagonista che, col nonno (più le montagne = Heidi), si ciba di pollo e pesci. Pare dire, ma non azzarda, che la differenza è data dal tipo di rapporto instaurato con l’animale: se (pre)esistente, va preservato. Tutti gli altri possono andare al macello. Sarebbe stato coraggioso, ma scomodo, suggerire meglio (gli avvistamenti potrebbero essere mero mezzo di antropomorfizzazione) che la nuova razza geneticamente modificata, essendo più intelligente, merita di essere salvata. La seconda salsa è quella più a rischio di indigestione, proprio perché non apertamente grottesca: siamo dalle parti di Un'Estate con Coo (2007), dove è restituito l’idillio nel rapporto fra il “mostro” vessato dall’umanità adulta (e portato a New York come King Kong) e la purezza dei suoi cuccioli. A seguire, tratto, gesta e movimenti (digitali) per rendere adorabile la creatura, abbracci con note musicali ma, anche, il trash-Bong, fra peti e defecazioni (ma mettiamoci anche un John Denver con ralenti). Un progetto (chi l’ha ideato, finanziato, gli interpreti di fama che ci hanno creduto) talmente fuori dagli schemi, deforme, demente, da riuscire irrimediabilmente simpatico: certi mostri sgraziati sono davvero adorabili. Faticoso, però, pensare a Bong, quando impegnato in operazioni del genere, a qualcosa di più di un Roland Emmerich: ci saranno, anche qui, allegorie politiche e ammiccamenti vari alla contingenza, ma pensarli è un conto, renderli intellegibili ed efficaci un altro. Distribuito su Netflix.

Parte forte, Okja. Le idee migliori, se le gioca quasi tutte sui titoli di testa, quando vediamo Lucy, mogul di una gigantesca multinazionale, annunciare un'operazione di riciclo dell'immagine della sua Mirando corporation in chiave “eco-friendly”. Molto sinceramente preoccupata della fame nel mondo (come no?), la Mirando intende subappaltare a 26 allevatori di tutto il mondo lo sviluppo di un esemplare porcino scoperto di recente, miracolosamente nutriente e miracolosamente naturale. Ovviamente, il tutto è presentato con impietoso sarcasmo, a sottolineare che l'ecologismo d'accatto è solo la foglia di fico con cui si copre l'immane sfruttamento delle risorse messo in opera da organismi finanziari in avanzata fase di globalizzazione e post-fordizzazione (Lucy dichiara, papale papale, che quel relitto del passato che è la fabbrica è Il Male In Terra). Starbuck insegna – ed è infatti proprio l'insegna di Starbuck a campeggiare “casualmente”, più avanti, sullo sfondo di una delle scene-chiavi del film.
I dubbi, tuttavia, non si fanno aspettare. Arrivano già subito dopo i titoli, quando ci viene presentato Okja, l'esemplare che nelle montagne coreane sta venendo allevato dalla piccola Mija insieme al nonno. Non che le scene di idillio faunistico in mezzo ai boschi tra la bambina e l'enorme suino non siano ben fatte – tutt'altro. Il problema è altrove: se il film è cominciato affermando (giustamente) la continuità dialettica tra lo strapotere delle corporation globali e la posticcia esaltazione dell'autenticità, di ciò che è “naturale”, “organico” e così via, e mettendo bene in chiaro che quell'esaltazione è direttamente funzionale a quello strapotere, perché mai il film cerca, subito dopo, di farci parteggiare per la bambina che amorevolmente alleva la creatura tra alberi e ruscelli CONTRO l'asettico nemico nei palazzi del potere finanziario che vuole rubarle l'ingombrante animale? Perché, insomma, Okja vuole che lo spettatore prima prenda coscienza di questo circolo vizioso ideologico per cui l'opposizione “local” è direttamente funzionale al sistema “global”, e poi lo spinge a schierarsi a favore della prima contro il secondo?
Ma a uno che ha fatto The Host e Snowpiercer, il beneficio del dubbio lo si accorda volentieri. E quindi si prosegue con la visione, nella speranza che questa apparente incoerenza di approccio si ribalti in punto di interesse, e si riveli un tentativo di mettere a nudo le contraddizioni dell'ideologia dominante. Era questo, ad esempio, il caso di The Host, dove istanze filo-americane e “indipendentiste” si intrecciavano in una vertiginosa spirale dialettica, dove dietro alle une si nascondevano sempre le altre, escherianamente.
Nel caso di Okja, purtroppo, non è così. La nuova opera di Bong Joon-Ho si riduce ahinoi a un intrigante e ingegnoso disegno allegorico che non viene sviluppato in modo adeguato. Ecco dunque che il racconto incappa in pesanti rallentamenti (quasi sempre quando Mija, personaggio già di suo tutt'altro che esaltante, scompare di scena), o viene pompato gratuitamente con qualche inseguimento buttato là, o viene sciolto da risoluzioni narrative che fanno cadere le braccia (come quella grazie a cui, nel finale, il maiale viene restituito a Mija).
La magagna principale, tuttavia, è di merito e non di metodo. A metà film, Lucy ci offre su un piatto d'argento la chiave dell'intera operazione. “Io”, ci dice mettendo le mani davanti all'obbiettivo e intrecciandole l'una all'altra, “ho preso la scienza e la natura e le ho sintetizzate”. È questo, notoriamente, il sogno di chi tiene in mano le redini del nostro mondo post-industriale. Bong avrebbe voluto realizzare un film che sta su posizioni contrapposte, ma avrebbe potuto farlo solo fornendo una maniera di articolare scienza e natura alternativa rispetto alla sintesi. E invece si accontenta della sintesi: davanti a un uso massiccio (e pregevole sotto molti aspetti) del digitale, Bong sceglie (a differenza di quanto accadeva in The Host, in cui tale utilizzo era deliberatamente stridente – come stridente era l'uso dell'humour, qui invece integralmente “pacificato”) la via di una sua integrazione armonica nell'immagine. Ma in questo modo non fa che usare in modo assolutamente acritico le armi del nemico.