
TRAMA
Suor Clodagh è nominata madre superiora di un nuovo convento sito sui monti dell’Himalaya, a 2.700 metri d’altitudine. Il sovrintendente del generale che ha donato l’edificio è certo che le suore non resisteranno a lungo: i primi cedimenti li mostra suor Ruth, il cui amore per quest’ultimo diventa ossessivo.
RECENSIONI
Mentre il testo di Pressburger (dal romanzo dell’indiana Rumer Godden) tratta con acume ed eleganza lo scontro scabroso fra vita ascetica e pulsioni sen(s)suali, l’occhio barocco di Powell lo restituisce nei colori pittorici (Vermeer, Van Gogh, Rembrandt) della fotografia di Jack Cardiff, da qui in poi maestro indiscusso del technicolor espressivo. Come un demiurgo nel suo microcosmo (è tutto magistralmente ricostruito in studio dallo scenografo, artefatto ad arte fra fondali, modellini e trasparenti, collegato dal montaggio ad immagini “dal vero” di un giardino botanico), imbratta la tela in un’esplosione cromatica che coinvolge tutti i sensi e scandisce la progressione narrativa: emblematica, in questo senso, la metamorfosi di suor Ruth, dal bianco della presunta tabula rasa all’arancione del Sole che dà vita, dal rosso della Passione (la scena del rossetto) al nero della Morte (l’inquadratura dell’Abisso resta impressa nella memoria). A livello ideologico, gli autori non si schierano contro le religiose, tantomeno le rendono vittime di tentazioni sataniche, semplicemente le ritraggono come straniere in un territorio alieno che le “corrompe”, le sconfigge rendendole più umane, operando, per “magia”, attraverso lo sferzare del vento, la suadente appariscenza dei fiori, la vanità, l’indifferenza crudele, la Vita tout-court da loro obliata. Suor Clodagh/Deborah Kerr (memorabile il suo gioco di sguardi) alterna, non a caso, atteggiamenti rigidi e altezzosi a moti più empatici e crolla di fronte a eventi incomprensibili o immutabili (il santone, l’attrazione sessuale). Con la tensione carnale e spirituale giocata in modo così complesso a livello evocativo-iconografico, la struttura non lineare della drammaturgia, aggrovigliata e impastata con molta carne al fuoco fra personaggi, flashback e (altri) drammi, distrae troppo dal potere dell’incantesimo operato dal fluire di tinte e sensazioni, ma ogni ingrediente testimonia i colori del Piacere che sottomette la Trascendenza, dalla famelicità sessuale di Jean Simmons alla follia inquietante di Kathleen Byron.
