Drammatico, Sala

MIELE

NazioneItalia/Francia
Anno Produzione2013
Durata96'
Tratto dadal romanzo A nome tuo di Mauro Covacich
Scenografia

TRAMA

Irene aiuta le persone a morire. L’incontro con un sibillino ingegnere complicherà la sua esistenza.

RECENSIONI

Protetta e insieme annullata dallo pseudonimo di Miele, Irene porta la pace (con quel nome, del resto...) nell'esistenza di malati terminali per i quali la vita ha cessato da molto tempo di costituire un'alternativa plausibile al sonno eterno. Novello messaggero degli Dei, accompagna non le anime, ma i corpi, variamente emaciati, dei suoi clienti, sostenendoli (senza lasciare tracce) nel più estremo dei viaggi. Vive in un presente senza confini e senza prospettive, immersa nella dissimulazione (requisito fondamentale per svolgere in maniera efficace il proprio compito) come nell'acqua gelida che culla i suoi allenamenti solitari, finché l'incontro con Carlo, malato nello spirito e non nel fisico, spezza il fragile autocontrollo della ragazza, la spinge letteralmente fuori da se stessa, la induce a vedere, a vedersi con un distacco non più professionale e algido, ma carico di comprensione e dolore. E nella sua ultima missione Miele aiuterà, proprio malgrado, un uomo a compiere la più dolorosa, ma anche la meno evitabile, delle scelte. Valeria Golino esordisce alla regia e riesce nell'impresa più difficile, quella di non farsi schiacciare da un soggetto tanto alla moda (anche per le note vicende di cronaca) quanto rischioso, non solo per le implicazioni etiche dell'attività di Miele, ma per lo slittamento, che si poteva paventare, nel rotocalco televisivo a basso costo.

La fotografia di Gergely Pohárnok plasma un universo dominato dal blu e dal marrone, acqua e terriccio che si mescolano nel sangue (malato? Chissà) della protagonista e ne scandiscono in maniera ossessiva l'esistenza, schiacciata da aerei che vanno e vengono, instancabilmente, cadenzata dai ritmi ossessivi dell'attività fisica (sesso compreso), mentre i rapporti interpersonali (con i clienti, il compagno, gli amici, la famiglia) sfumano in un magma indistinto dal quale emergono, come stilettate, battute isolate (su tutte quella affidata a Iaia Forte, unita a Roberto De Francesco in un cammeo di inquietante mestizia) che lacerano l'apparente indifferenza della giovane donna. L'incontro con l'austero e cinico Grimaldi porta, poco a poco, la luce in un mondo vitreo e levigato come una morgue di lusso, mentre il frigido distacco che caratterizza le prime sequenze (compresa quella, assolutamente accessoria ai fini della narrazione, ma fondamentale per la definizione del personaggio, della serata in discoteca) cede il passo a un approccio meno teso e dimostrativo (peccato per l'uso del flashback, omaggio al genere 'introspettivo' che inserisce una nota melensa e stonata, benché i danni possano dirsi tutto sommato contenuti), con gli attori (Cecchi, ovviamente, ma anche una Trinca insolitamente dura e piacevolmente 'sgradevole') che si impadroniscono del film e ne dettano - giustamente - il passo. Purtroppo la sceneggiatura, farraginosa quanto prevedibile, non è all'altezza degli interpreti, né delle intuizioni della regista, che nell'ultima parte cede al (mal)vezzo comune a tanti colleghi non solo italiani, quello di voler chiudere in gloria (e con una morale piccola piccola e per giunta pure ovvia), in un epilogo che vorrebbe essere tenero e lirico ed è bozzettistico e pomposo. Bel tentativo, risultato rivedibile: attendiamo l'opera seconda.