
TRAMA
All’inizio del XX secolo, sull’isola de La Réunion, cinque adolescenti di buona famiglia, appassionati di scienze occulte, commettono un feroce crimine. Un capitano olandese se ne prende carico e li costringe ad una crociera di rieducazione a bordo di un vascello fatiscente e spettrale. Sfiniti dai metodi del capitano, i cinque ragazzi pianificano l’ammutinamento. La loro meta è un’isola sovrannaturale dalla vegetazione lussureggiante che cela un segreto sconvolgente.
RECENSIONI
Non è un debuttante Mandico, anche se questo è il primo lungometraggio che dirige: alle spalle ha una discreta quantità di lavori di media e corta durata che hanno già definito le coordinate di una poetica che in Les garçons sauvages trova la sua apoteosi ultima. Innanzi tutto lo sguardo alla storia della Settima Arte che impasta le sue visioni: come nei film di Guy Maddin l’approccio tecnico e stilistico richiama il cinema delle origini, dunque trucchi e illusionismi d’antan, bianco e nero o colori virati, retroproiezioni, set evidenti, immagini marcescenti e un mix di estetiche che sembrano provenire da tempi altri (con un occhiolino costante alle magie evocative, alle allucinazioni psichiche e alle narrazioni concentriche di Raúl Ruiz). Poi un festival di citazioni trasversali, più o meno evidenti: in questo caso si va da Zero in condotta di Vigo, a Fassbinder, dalle mitologie stilizzate di Cocteau ai misticismi deliranti di Anger, passando per Jarman, Kubrick (le maschere che coprono i volti della banda all’inizio, come quelle di drughi passatisti) e molti altri. Ma questa scorribanda tra le iconografie non suona mai vacua o sterile, anzi, i riferimenti germogliano su un terreno che appare fortementente connotato.
Les garçons sauvages si presenta, infatti, come ode attualissima al sesso fluido, fiaba adulta composta con un linguaggio che guarda sì, al surrealismo e ai grandi visionari, ma per parlare del nostro tempo. Così l’isola de La Réunion è il gigantesco simbolo dell’identità sessuale attuale, in costante divenire, di una plasticità erotica e di una volubilità della libido rese attraverso immagini incantate e arditissime (piante che gettano fluido-sperma, frutti pelosi, mappe del desiderio e della memoria tatuate su peni, orge spiumanti senza complessi o ruoli, improvvise mutazioni). Non ci sono giudizi, non ci sono prese di posizione e questa prospettiva amorale e pansessuale è quanto di più spiazzante, perché non ha il carattere rivendicativo di certo cinema anni 70: a essere davvero scandalosa è l’assenza di una militanza cui contrapporsi. Un film che evoca, in chiave perversa, romanzo d’avventura e teatro (i dialoghi magniloquenti), che fa attraversare il suo pastiche da un coerente mix di musiche differenti per stile e provenienza e che si presenta, in modo sano ed esemplare (quindi inattuale), come lavoro da prendere o lasciare.
Rivelazione di Venezia 74, avrebbe meritato concorso e premi.
