Drammatico

LE TRE SCIMMIE

Titolo OriginaleÜç Maymun
NazioneFrancia/Italia/Turchia
Anno Produzione2008
Durata109'
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Candidato alle imminenti elezioni, l’assonnato Servet travolge una persona con la sua macchina. Per non compromettere la sua carriera politica propone a Eyüp, il suo autista, di addossarsi la responsabilità dell’incidente in cambio di una ricompensa in denaro. Eyüp accetta, ma non tutto va come previsto…

RECENSIONI

Dopo il candidamente burbero Uzak e il portentosamente soporifero Il piacere e l’amore, Nuri Bilge Ceylan (definito da alcuni decorticati “l’Antonioni turco”) consegna al grande schermo il faticoso dramma familiare Le tre scimmie. Insignito del Premio per la Migliore Regia al Festival di Cannes, il film del quarantanovenne cineasta di Istanbul mette in scena con stile estenuato ed estenuante una vicenda che sulla carta potrebbe anche vantare elementi di interesse. L’abusata questione “può la libertà essere comprata col denaro?” viene difatti sbrigata con apprezzabile rapidità e relegata immediatamente ai margini della narrazione, che invece si concentra sul vuoto lasciato in famiglia dalla scellerata complicità offerta dal remissivo Eyüp (Yavuz  Bingöl) all’ambizioso Servet (Ercan  Kesal) in cambio di un bel gruzzolo da ritirare a pena scontata. A passare in primo piano è quindi chi è costretto, indirettamente, a fare i conti con questa scelta: la moglie Hacer (Hatice  Aslan) e il figlio Ismail (Rifat  Sungar), che si barcamenano in una condizione tra lo squallore e l’indolenza. Tutto ciò nell’attesa che Eyüp esca dal carcere e che la loro vita benefici di un qualche miglioramento. La situazione di stallo viene movimentata da alcuni eventi che cambiano le carte in tavola e che costringono i due a tutta una serie di piccole e grandi menzogne destinate ad alterare l’equilibrio familiare, coinvolgendo sia l’ignaro Eyüp che l’untuoso Servet. Reticenze, sotterfugi e misteri intralciano la linearità dei rapporti così come la progressione drammatica, costretta a procedere a singhiozzo senza mai ingranare davvero. Indubbiamente Ceylan ha delle intuizioni visive non dozzinali (affascinante il lavoro sulla distribuzione dei punti macchina e pregevole il gioco di ostruzione scenica dello sguardo), ma totalmente svincolate dalla materia narrativa, come se i due piani (rappresentazione e narrazione) non comunicassero mai, condannati a una stridente e ininterrotta estraneità. Inutile ipotizzare che una simile discrepanza rimandi, per via stilistica, alla strisciante incompatibilità dei personaggi e delle loro aspirazioni, molto più sensato invece ravvisarvi un intervento di stilizzazione posticcia. Limite conclamato del film è difatti la scrittura: una costruzione che, pur evitando di incanaglirsi nel trito dilemma libertà/denaro, soffre di uno schematismo (il ripetersi della proposta immorale all’inizio e alla fine) e di una rigidità (c’è forse un personaggio che esce dal suo ruolo?) francamente imbarazzanti. Sequenza da dimenticare: il rientro a casa di Ismail sanguinante mentre la televisione trasmette i risultati delle elezioni (della serie “i maneggi politici feriscono il corpo sociale”). Sequenza da ricordare: la scena madre in cui Hacer implora Servet di non liquidarla (l’igiene sentimentale del campo lungo bruscamente interrotta da uno sguardo assassino tra i rami). Brano musicale indimenticabile: “Emi” di Yildiz Tilbe, l’esaltante suoneria del cellulare di Hacer.