Drammatico

LE CHIAVI DI CASA

TRAMA

Gianni accompagna in un ospedale di Berlino il figlio disabile che aveva abbandonato alla nascita. Fra slanci e incomprensioni, la nascita di un rapporto.

RECENSIONI

Gianni vede per la prima volta suo figlio – il figlio tenacemente schivato dalla nascita, quindici anni prima – in una fotografia offertagli dallo zio materno del ragazzo. La macchina da presa non mostra tale immagine e non indugia sul corpo di Paolo addormentato in treno, limitandosi a visualizzarne il riflesso nel viso di Gianni; analogamente, il primo sguardo che il giovane rivolge a un genitore non riconoscibile/riconosciuto è posto fuori campo, prigioniero di un’ellissi che rende in modo esplicito e non urlato la cecità di Gianni, il suo (quasi) involontario consegnarsi a un sogno d’idillio che non può trovare improvvis(at)o spazio nel deserto della malattia, in una babele indecifrabile e gelata, nell’anonimo snodarsi di stanze di hotel e di ospedale. LE CHIAVI DI CASA racconta la difficile convergenza degli sguardi di padre e figlio, prigionieri di un orizzonte sfuggente, all’inizio privi di riferimenti mutuamente comunicabili (Paolo si aggrappa alle coordinate della routine: il numero di telefono, l’indirizzo, l’oggetto che costituisce il titolo dell’opera), sempre più vicini, a livello fisico quanto spirituale (i giochi nell’acqua, le coccole “traditrici”), tanto che Gianni si convince di essere pronto al salto di qualità familiare. La parentesi norvegese mette il padre di fronte a una realtà al tempo stesso inesorabile e non del tutto priva di speranza: al pianto dell’illusione spezzata segue un abbraccio che non è più soffocante sostegno o meschino alibi, ma reciproco conforto dell’infelicità.
Assecondato da un cast tecnico d’eccellenza, Amelio fa di tutto per evitare la lacrimuccia-placebo, ottenendo dalla coppia formata da Andrea Rossi e Kim Rossi Stuart una prova impressionante per affiatamento e comprensione reciproca. Purtroppo, la sceneggiatura (opera dello stesso regista, Rulli e Petraglia) ha il fiato corto, scontando, oltre alla figura (para)letteraria di Nicole (un’irreprensibile Rampling), dialoghi superflui (un esempio per tutti: la confessione finale di Nicole avrebbe potuto essere più efficacemente espressa tramite un primo piano muto), battute imbarazzanti (l’infermiera dell’accettazione), scene tralasciabili [il percorso in taxi con incompresa dichiarazione di solidarietà (sottotitolata a favore del pubblico), gli intermezzi musical-ludici (lo spettatore rischia di non capire la dialettica fra le aspirazioni alla “normalità” di Gianni e le condizioni di Paolo, bisogna insistere e visualizzare tutto il visualizzabile, dagli anziani danzanti ai bambini al parco, ai giocatori di basket su sedia a rotelle)]. Penalizzata da un simile fardello, la regia rimane incerta fra un riso amaramente complice che stenta a fiorire e una tendenza al dramma intimo e dark, riuscendo solo nella sequenza della “fuga” di Paolo a unire le due anime trovando accenti realmente perturbanti. Il risultato appare nel complesso piatto, svogliato come un cortometraggio tirato per le lunghe. Restano (e non è poco) la secchezza visiva e la forza di alcuni piani (le abluzioni inizialmente forzate, poi complici), ma lo struggente capolavoro annunciato in sede pubblicitaria non riesce a manifestarsi.

Dal resoconto intimo e struggente di Giuseppe Pontiggia, opera stratificata, quasi infilmabile, citato testualmente nel film (è la Rampling a consigliare al protagonista la lettura di Nati due volte), rielaborato dallo stesso regista in collaborazione con Petraglia e Rulli – quest’ultimo protagonista di un’altra intima ricognizione dei sentimenti paterni in Un silenzio particolare, presentato a Venezia della sezione Cinema digitale – una straziante storia d’amore filiale, una sfida lanciata al mondo (del cinema) e vinta trionfalmente. Come nel film di Amelio più prossimo, tematicamente e stilisticamente (simili incipit, epilogo e musiche, sempre firmate da Piersanti) a quest’ultima opera (Il ladro di bambini), è un viaggio “coattivo” a ripristinare un cordone ombelicale e connettere esistenze “vere”, prelevate dal reale e traslate sullo schermo con sobrietà e senza filtri ideologici o finalità parasociologiche. Tuttavia, mentre quella del carabiniere Lo Verso era una sorta di presa di coscienza di una paternità spirituale non ricercata, come piovuta dal cielo, quella del padre Rossi Stuart è la riscoperta di sé nella scoperta del figlio, la definitiva riacquisizione di un ruolo che a lui spettava, ma che aveva colpevolmente scelto di non rivestire a causa di un lutto impossibile da elaborare nel breve periodo.
L’intera opera sembra far ruotare l’intero rapporto tra i due attorno ad un perno centrale (l’occhio, nelle sue varie configurazioni filmiche e profilmiche) e ad un duplice “movimento” dello sguardo: quello reale dei personaggi, quello lontano e vicino della cinepresa di Amelio, quest’ultimo palesemente in contrasto con la fredda registrazione meccanica della videocamera che fissa su nastro la tortura “a fin di bene” inflitta al figlio disabile. Da ciò scaturisce e sembra momentaneamente esaurirsi, non risolvendosi, l’intera dialettica dei sentimenti: gli occhi di Andrea Rossi perlustrano lo spazio ed il suo sguardo lanciato dal basso trafigge come una lama di metallo; quello del padre, al contrario, prima sembra proiettarsi oltre il presente, rifuggendo un imbarazzo visibile e dichiarato, poi, a seguito della “scoperta” del figlio, della nascita di un legame affettivo che mai potrà essere reciso, trova nel viso, nel corpo di Andrea Rossi l’oggetto privilegiato ed esclusivo della propria visione. E’ nello scambio e nelle traiettorie tracciate da tali sguardi che Amelio riesce a restituirci, miracolosamente, la verità di un rapporto che vede nel rovesciamento della classica impostazione del Bildungsroman (il vero romanzo di formazione, qui, lo vive il padre) il suo tratto più originale. La grandezza del film sta, in ultima analisi, nella scelta indubbiamente coraggiosa di affidare agli occhi di Rossi, al loro imprevebile roteare e alle parole gridate o dette a fior di labbra, spesso inintelligibili, il compito di dirigere il profilmico, di denudare il protagonista e denudarci, mettendoci di fronte senza ricatti o patetismi all’alterità in tutta la sua evidenza. Cast in stato di grazia, momenti di puro cinema sublimi.

Amelio (di)mostra, se mai ce ne fosse bisogno, che al di là della programmatica chiassosità da baillame festivaliera si può fare rumore anche con il silenzio consegnandoci ancora una volta, immancabilmente, un’opera di straordinaria intensità.
Le chiavi di casa è un film giocato fondamentalmente sull’impercettibilità dei contrasti, su una folgorante sobrietà formale, oramai tratto distintivo del regista, che tende a diluire il portato concettuale procedendo con uno stile per così dire liquidamente ossimorico. La pellicola (ri)flette delicatamente sulla faticosa dorsale di tematiche piuttosto complesse come il risarcimento di un rapporto mancato (/mancante) tra padre e figlio, la paraplegia (come qualsiasi altra malattia) come inspiegabile condanna destinale dell’esistenza. La dolorosa grevità di alcune sequenze viene addirittura stemperata da altre in cui Amelio pigia con tenero savoir faire sul tasto dell’ironia (come nel caso della riabilitazione ortopedica di Paolo da parte della dottoressa che si fa interprete di ben più memorabili ruvidezze teutoniche, e conseguente scena della vasca); il frastornante, munchiano, silenzio della madre (una Charlotte Rampling senza aggettivi adeguati) nel cui spessore segnico si raggruma e nello stesso tempo si sospende forse tutto il senso di un film che osa interrogare bernhardianamente l’enigmatica insensatezza dell’esistere. Figure sghembe, opache, luminosissime, sullo sfondo di un’oscurità problematicamente ingombrante, discorso estetico fin troppo pesantemente didascalico e pur condotto con una leggerezza di toni, soprattutto cromatici oltre che diegetici, che sorprendono il nostro sguardo con un flebile susseguirsi di impercettibili e inattese piccole epifanie (gli sguardi, i volti, le parole, i silenzi di nuovo, l’immensità semi(oti)ca dell’inespresso).
La traiettoria descritta dal cinema di Amelio, e francamente la cosa non dispiace, è sempre quella segnata da personaggi in cerca di definizione, da identità fluttuanti tra essere e dovere che si (ri)costruiscono e riconoscono sempre a partire da un’alterità con la quale sono chiamate in qualche modo ad interagire. I rapporti interpersonali si annunciano già sempre più come intersezioni tra esistenze varie, contatti casuali, inattesi incroci di destini. Colpisce in tal senso questo saper raccontare attraverso la m.d.p., l’indugiare quasi traballante sugli sguardi apparentemente estranei di Gianni e Paolo, solitudini (dis)perse in una Berlino algida e distante, più asettica dei suoi inquietanti sanatori. Amelio ridipinge con tinte plumbee ma anche con squarci di traslucida solarità la serena disperazione di una paternità riavvicinata, di una relazione soprattutto umana al di là di ogni specificazione sanguinea, scontornando le campiture del quadro, sfrondando i dialoghi delle inutili verbosità, tentando di narrare l’esistente attraverso un sapiente gioco dialettico tra totali e controcampi. Un cinema che incede lentamente, meravigliosamente su se stesso senza (ri)avvolgimenti compiaciuti e retorici, un cinema sorprendentemente semplice e lineare, bressoniano nell’anima, chapliniano nel cuore.
[Hi(n)c non sunt leones
Dispiace vedere l’intelligenza di un cineasta ormeggiata a fianco di un bucintoro carico di rancore. Fortunatamente il film vive nella (/della) (sua) distanza da tali lidi]

Dato fin da prima dell'inizio del Festival di Venezia come favorito alla vittoria, il nuovo film di Gianni Amelio e' invece rimasto a bocca asciutta, lasciando RaiCinema nello sconforto (quest'anno, per fortuna, nessuna imbarazzante dichiarazione da parte dell'amministratore delegato). A giochi ormai fatti, e facendo i complimenti alla giuria per la capacita' di non lasciarsi condizionare da chi pensa al cinema come potere e non come arte, un interrogativo sorge spontaneo: doveva vincere? Beh, inutile nascondere che "Le chiavi di casa" delude parecchio le aspettative. Sia tecnicamente, perché non è ammissibile che si debba ricorrere ai sottotitoli in inglese per riuscire a capire i dialoghi dei personaggi, ma anche per il taglio impresso da Amelio al racconto. Possibile che al cinema il disabile sia sempre simpatico, gioioso, tenace, vitale e abbia tante cose da insegnare? Attenzione, perché non significa che sia vero il contrario, ma solo che una visione edificante e a senso unico rischia di togliere dignità all'handicap, mostrando una realtà edulcorata a puri fini cinematografici. Il film di Amelio gode per fortuna di interessanti sfumature, ma il rapporto tra il quindicenne Paolo e il padre che non ha mai conosciuto, pecca di qualche schematismo di troppo e non convince fino in fondo. A essere poco credibile non e' tanto il giovane Andrea Rossi, quanto il personaggio del padre, per tutto il film troppo positivo e accomodante (non certo plausibile l'idea di buttare a mare la stampella, cosi' come il semplicismo della telefonata finale alla moglie). Kim Rossi Stuart lo interpreta con sensibilita', a parte l'occhio fisso e lo sguardo attonito con cui reagisce alla fuga del figlio dalla palestra. La madre di una disabile, interpretata da Charlotte Rampling, pare invece avere la didascalia del riempitivo. Irritante la sequenza in cui legge e consiglia il libro "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia, fonte di ispirazione della pellicola. La sceneggiatura e' molto attenta a evitare qualsiasi spettacolarizzazione del dolore, anche se per forza di cose risulta un po' ricattatoria (le cure mediche, le estenuanti camminate imposte dalla durissima dottoressa). Solo verso la fine, quando la disperata presa di coscienza del padre prende consistenza, il film sembra poter cominciare a dire qualche cosa che esca dal luogo comune. Inutile dire che e' troppo tardi e l'embrione di un'emozione arriva dopo i titoli di coda.