
TRAMA
Bologna 1976. Radio Alice e’ la radio del movimento studentesco. Un mondo estraneo ai tutori dell’ordine e ai “bravi cittadini”, ma anche alla maggioranza dei ragazzi delle periferie. Come a Safagna, periferia Sud. Due ragazzi sui venti, Sgualo e Pelo, possono solo sognare una via d’uscita dal quotidiano. Bazzicano il bar del quartiere e per ovviare alla cronica mancanza di denaro fanno qualche “lavoretto” per un ricettatore locale che pero’, questa volta, propone loro di scavare un tunnel nel sottosuolo del centro. Obiettivo: la Cassa di Risparmio di Piazza Minghetti. I due, non senza tergiversare, accettano l’impresa. Ma, si sa, lavorare stanca. E per vivacizzare le lunghe ore notturne si portano una radiolina. Trovano la stazione di Radio Alice e una notte decidono di andare alla sede dell’emittente.
RECENSIONI
A metà degli anni Settanta nacque a Bologna Radio Alice, un innovativo strumento di comunicazione creato per "dare voce a chi non ha voce", ideato per offrire alle gente comune la possibilità di esprimersi al di là degli insufficienti spazi istituzionali. Il film di Guido Chiesa, scritto dal regista insieme al collettivo letterario Wu Ming, ne ripercorre gli eventi salienti intrecciando diverse micro-storie. La carne al fuoco è tanta: la contestazione del profitto come fondamento dell'attività lavorativa, della vita vissuta come costante sacrificio collettivo in nome di un bene comune che non dà mai i suoi frutti, la liberazione sessuale, la lenta presa di coscienza dell'individuo, fino ai sanguinosi eventi che hanno portato all'uccisione dello studente universitario Francesco Lorusso. Anche il materiale umano è quanto mai variegato: le famiglie ancorate al passato, i giovani ribelli, quelli che non sanno bene cosa fare ma si sentono insoddisfatti (i due protagonisti, che hanno la chiara funzione di accompagnare i dubbi dello spettatore), le forze dell'ordine, il figlio di papà imbottito di slogan, i vecchi da bar, l'avvocatessa simpatizzante con il movimento, i minorenni che preferiscono la galera al vuoto, le femministe agguerrite. Non tutto è equilibrato, alcuni quadretti hanno le ingenuità del bozzetto, certi sviluppi cadono nel didascalico, qualche personaggio sfora nella macchietta (su tutti il Carabiniere simpatico e un po' grullo che non fa nulla durante il giorno se non ascoltare Radio Alice e ammiccare allo spettatore), ma dalle immagini trasuda un'inaspettata vitalità, che ben si abbina a un digitale sgranato ma non sciatto e a scelte originali, come gli intermezzi stile cinema muto, gli split-screen, le didascalie, gli eccessi quasi fumettistici. Grazie al cielo, inoltre, non è la nostalgia il mentore espressivo del regista, che guarda al fermento del periodo anche con occhio critico, senza facili e inutili intenti celebrativi. Quello che manca è forse un po' di approfondimento, ma di stimoli il film ne dà parecchi. Attori in parte, anche se a volte eccessivamente a briglia sciolta.

Caratterizzato da un ben visibile Procacci touch (sinistrismo all’acqua di rose, del resto distribuisce Medusa…), l’ultima opera di Chiesa, regista interessante qui completamente in balia di altri, sembra dimenticarsi della Storia a favore del destinatario privilegiato ed ideale dell’intera operazione: i liceali.
Narrando le avventure di simpatici ragazzi contro, quelli che sconvolsero realmente il grigio torpore nel quale vegetava la borghesia bolognese degli anni settanta, gli sceneggiatori si limitano ad abbozzare un miniaffresco generazionale che si vorrebbe accattivante e “lieve”, ma che finisce con l’essere un anonimo/anodino elogio della rivolta, la cui irriverenza dal punto di vista tematico è inversamente proporzionale a quella dello stile. Piatto, senza guizzi, fastidioso quando cerca di scimmiottare gli stilemi del cinema di quegli anni (rovinosa caduta di stile la sequenza del concerto degli Area/Afterhours, un ridicolo simil-Woodstock de’noartri con tanto di camera a mano e slipscreens) ed ancora più penoso quando anestetizza la dialettica interna al gruppo narrandocela attraverso siparietti da cinema muto con tanto di intertitoli dagli psichedelocromatismi, il film sconta un pessimo lavoro di casting, in cui escono a testa alta (o non bassa) soltanto Mastandrea, i vecchini del bar e qualche altra comparsa. Pare il caso di stendere un pietoso velo sul vergognoso premio Mastroianni assegnato all’ennesimo clone di Accorsi e ad un non professionista che sta alla recitazione come i ragazzi di Alice a Comunione e Liberazione. Si salva soltanto il finale “bellico”, sebbene rimanga un mistero l’uso della Casta diva belliniana. Forse per la pallida luna che illumina la notte dello scontro? Bah…

Il cinema della rivolta ha sempre destato nel sottoscritto più d’un sospetto: dal pretesto di cambiare le cose al ricatto dell’utopia il passo è breve, destinato a compiersi nelle menti di un pubblico generalmente giovane e sognatore, che inneggiando alla Revolución è pronto a concedere benevolenza di giudizio. Inserendosi nel difficile contesto tutto sommato il film di Guido Chiesa lungamente raccoglie una serie di stereotipi con esigua correttezza, senza rivelarsi particolarmente molesto; ma quando imbraccia la pretesa di inscenare il classico scontro manifestanti/polizia lo fa con sconcertante volgarità cinematografica, scagliandolo contro lo spettatore con la leggerezza di uno schiaffone, fino a creare un mostro ibrido nettamente sconnesso dal resto. Disseminando danni nel tentativo di imitazione del cinema formato ‘70, e ancora risollevato dal soffio ironico della sceneggiatura (perlomeno un sorriso nel finale), l’opera si crogiola tra alti e bassi senza mai distaccarsi pienamente dai toni dell’operazione. Il fatto che nel filone si sia visto molto di peggio non costituisce, di per sé, una scusante per giustificare il film tutto; né l’invisibile prova della coppia protagonista (Luisi e Ramenghi) viene riscattata dalla coppa Mastroianni di Venezia 61, che regala una nuova insospettabile definizione al termine “scandalo”. Giocando la carta del come eravamo LAVORARE CON LENTEZZA dimentica il cinema (non vi è nessuna inquadratura che rimarrà): nonostante gli applausi maoisti il messaggio mi pare lucido e preciso, l’italica celluloide deve decidersi a scendere dalla barricata. E deve farlo in fretta: i bambocci ormai sono cresciuti, non è più tempo di okkupazioni.

Al di là di tutti gli osanna ricevuti e di tutti i plausi raccattati all'ultima mostra veneziana ci sembra, quella di Guido Chiesa, una stentata occasione di riesumare un corpo (pellicolare) oramai morto e sepolto sotto una coltre di melanconici topoi eretti indebitamente e ingiustificatamente a simboli di una presunta verità storica.
Il piglio volutamente disequilibrato tra scanzonate mitologie giovanili e dramma proletario si lancia in un tentativo davvero inefficace di rievocare un momento storico che nelle mani di un nostalgico rischia di divenire (e di fatto lo diventa) una sorta di mitografia metastorica. In questi termini il percorso filmico di Chiesa non ci appare molto differente da quelli di ancor più discutibile levatura (per ovvi motivi purtroppo) di un Petersen (Troy) o, più recentemente, di un Fuqua (King Arthur) nelloffrire un autentico campionario dei più tri(s)ti luoghi comuni appartenenti ad un determinato periodo storico (la sequenza, peraltro neppure indegna per quella sua fragranza pattismithianamente psichedelica, in cui il film immola sull'altare dell'ovvietà scene di sesso (omo), droga e (scontato) rock'n' roll). Chiesa ci pare che tenti di ammiccare al coinvolgimento, seppur dimesso e molto 'slacker', dello spettatore affastellando malriuscite immagini da fumetto alla Andrea Pazienza (Paz risulta a questo punto molto più sensato) (sovrac)caricando la pellicola di superflua bolognesità giovanilistica e offrendo una fin troppo programmatica disomogeneità visivo-narrativa.
Non convince, in definitiva, questa operazione di disarticolato scompattamento della pagina storica affidata all'esile metafora dello scavo, del colpo 'rivoluzionario', al fenomeno (contro-)mediatico delle radio libere come frequenza disturbata di una sonnacchiosa, inespressa e inascoltata voce della (in)coscienza di classe, ai facili schematismi pseudo-pasoliniani degli studentelli borghesi e dei carabinieri figli d'immigrati, per disegnare contestualmente i contorni di un quadro socio-politico sostanzialmente confuso.
